SOLO QUELLI CHE SONO COSI' FOLLI DA PENSARE DI CAMBIARE IL MONDO, LO CAMBIANO DAVVERO (A.Einstein)

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lunedì 27 febbraio 2023

Odore d'origano



Gli odori per me sono come i colori e le immagini.

Cominciano a infiltrarsi nella mia coscienza e dirottano il pensiero su eventi e ricordi, su sogni passati, su una vita che ora sempre idilliaca.

Questa mattina il gatto si è intrufolato nel ripostiglio dove tengo le scorte alimentari e per convincerlo ad uscire mi sono chinato sino a che il mio naso è venuto a contatto con il sacchetto dell’origano.

È stato come un pugno nel cervello, prima una macchia verde scura poi i contorni cominciano ad emergere e il ricordo di quella mattina a Piraino mentre a piedi discendevano lungo i tornati che portavano a Torre delle Ciavole. Francamente non so se il nome fa riferimento ai corvi o al pesce che si potrebbe pescare in quello specchio di mare.

Ma so che lo spettacolo allora era sublime, sublime come il viso della francesina che accompagnavo.
E l’origano era la pianta che mi ritrovai sotto il naso mentre potete benissimo immaginare cosa stessi facendo, ecco perché per me quell’odore è come una fanfara dei bersaglieri,  meglio di qualsiasi stimolate industriale.

Ma torniamo alla Torre delle Ciavole.
Su uno Sperone roccioso sul mare edificata con grossi blocchi di pietra su tre rialzi era la difesa di quel tratto di costa nel XVI secolo.

Bastavano quattro soldati a sorvegliare e con l’ausilio della campana posta accanto alla finestra del lato sud, dare l’allarme se arrivavano pirati o altri pericoli. E proprio un guardiano scatenò l’amore della principessa Maria La Bella di nome e di fatto.

Ma come tutti gli amori impossibili la tragedia incombe.

La principessa stava al castello dei Lancia e il giovane arrivava in barca sino al caricatoio  e come nelle tragedie shakespeariane si arrampicava sino al balcone. Comunicavano anche di giorno usando gli specchi, ma tutto questo non poteva passare inosservato e il fratello della ragazza senti questo amore come un affronto al suo onore e preso di rabbia architetto un agguato nei pressi dello scoglio  vicino a Brolo detto appunto “del pianto” (ploratu). Uccise il guardiano e si liberò del corpo gettandolo con un sacco nel fondo del mare.

Ancora oggi la Maria la Bella appare ai pescatori del luogo e augura loro fortuna alla pesca e li allerta in caso di cattivo tempo.

Questa storia raccontai alla bella francesina mettendogli nell’orecchio sinistro in rametto di origano fiorito.



lunedì 2 febbraio 2015

Guida galattica per gli autostoppisti

“Per risolvere il problema di questa infelicità furono suggerite varie proposte, ma queste perlopiù concernevano lo scambio continuo di pezzetti di carta verde, un fatto indubbiamente strano, visto che a essere infelici non erano i pezzetti di carta verde, ma gli abitanti del pianeta.”




domenica 1 febbraio 2015

Alice nel paese delle meraviglie

"Ma io non voglio andare fra i matti", osservò Alice."Bè, non hai altra scelta", disse il Gatto "Qui siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta.""Come lo sai che sono matta?" Disse Alice."Per forza," disse il Gatto: "altrimenti non saresti venuta qui."


Il mio Moby Dick

Non è segnata su nessuna carta: i luoghi veri non lo sono mai.

venerdì 30 gennaio 2015

Il mio Don Quijote


“Le tristezze non furono fatte per le bestie, bensì per gli uomini; ma se gli uomini ne soffrono troppo, diventano bestie.” 







mercoledì 22 dicembre 2010

a Truvatura




Nelle notti di eclisse di luna la possibilità di sciogliere le truvature sono quasi del 100 per 100.
Non erano queste le parole ma il senso si del discorso che mi fece Santipamma una volta in cui feci cenno all’eclisse che ci sarebbe stata quella notte.
Secondo lui c’erano due tipi di Truvature una legata al sole e una legata alla luna, e di conseguenza la possibilità di scioglierle erano maggiori durante l’eclisse di sole per le prime e di luna per le seconde.
Di Truvature c’è ne quasi una per ogni luogo nel mia terra, forse a causa della necessità che la popolazione sfruttata e verseggiata ha di sperare in un futuro migliore.
Nel mio paese si favoleggiava di una Truvatura che si deve trovare nella cripta della Chiesa sconsacrata di San Vito nella frazione dei nuzzari a pochi metri del cimitero; una botte piena di monete d’oro e di gioielli era la ricompensa, naturalmente il più grande esperto di botti che sia mai esistito sapete bene chi sia…
Venivano chiamati nuzzari gli abitanti di quella frazione del mio paese poiché vi era una forte presenza di allevatori di tacchini che in dialetto vengono chiamati nuzza. La piazzetta antistante alla chiesetta era coronata da ulivi selvatici e stranamente era ed è una delle piazze meno frequentate sia dagli adulti che da noi ragazzi, ragazzi d’allora naturalmente. Richiamandola alla mente non posso dire che sia una brutta piazza, malinconica forse..ma la presenza a pochi metri del cimitero la rendeva poco attraente anche per giocarci al pallone.
Santipamma mi spiegò come si dovesse sciogliere la truvatura:

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Entrare nella chiesa prima di mezzanotte o durante una eclisse di luna e qui non ci sono difficoltà basta forzare il vecchio portone.
Bisogna avere con se uno di nome Vito e di Vito in paese ne esistono abbastanza c’era Vitu minchiamotta che per un arancino era disposto a tutto.
Una vergine e questo era un bel problema, tutte quelle che conoscevo non erano più vergini, alcune per merito mio, ma tra le figlie di Maria un paio, data la loro somiglianza ai fiaschi tanto amati dal mio amico, promettevano ancora di poter arrivare all'oro.
Vito doveva aprire la botola e far strada sino al centro della cripta, disegnare un cerchio con un bastone di ferula: altro che Doris, già all’epoca si usavano questi mezzi per procurasi le ricchezze.
Tutti i presenti dovevano porsi al centro del cerchio e senza mostrare paura, ribrezzo o invocare i Santi aspettare che alla mezzanotte comparisse una Biddrina, che si sarebbe attorcigliata e leccato i presenti. Se nessuno avesse provato paura o ribrezzo questa si sarebbe trasformata in una chioccia d'oro e in 7 pulcini. Bisogna essere bravi a catturarli tutti e solo allora si sarebbe aperto un passaggio per dove si dovrebbe trovare la botte. Il varco deve essere attraversato per prima dalla vergine ma solo toccando tutti e tre la botte contemporaneamente la fattura verrà sciolta.

La storia si concludeva con la frase:
- Ma poi cu tutto 'st’oru chi'ni facemo?
-Sicuru ca saremu chiù felici?

mercoledì 27 ottobre 2010

Tempo di vendemmia


Sono i giorni che mi riportano in mente la vendemmia.
Mi reputo fortunato di avere ancora la memoria della vendemmia così come si faceva una volta; quella senza nessun strumento elettrico o a motore, solo uomini, donne, bambini, animali e tanta gioia.
Non era un lavoro era una festa, anche se avevi una grande vigna e dovevi pagare degli operai la vendemmia veniva vissuta con uno spirito  di estrema allegria.
Ci si alzava preso, prima che sorgesse il sole.
Per essere alle prime luci dell'alba tra i filari.
Non pensate alle vigne a pergolati, all'epoca le viti da noi erano  ancora coltivate basse, gli ultimi lavori fatti erano quelli della “rifunnuta”, una zappata che serviva a coprire bene le radici fatta a  luglio per evitare che il caldo torrido dell'estate asciugasse troppo  la pianta, e poi solo zolfo, irrorazioni con poltiglia bordolese, una  miscela di verderame e calce e tante preghiere che non ci fossero  precipitazioni intense con grandine. Scampati i pericoli della  peronospora e del tempo, si ci preparava alla vendemmia.
I più ricchi avevano il palmento di proprietà altri dovevano  affiatarlo e quindi far coincidere il giorno della raccolta con quello  della pigiatura. Stabilito il giorno, si invitavano i parenti, gli  amici e se la vigna era grande prenotare la manodopera.
I primi minuti di raccolta si svolgevano in silenzio, poi come se  uscisse dal profondo della terra un suono gutturale iniziava un canto  che da struggente diveniva sempre più allegro, erano canti popolari, i  più belli erano quelli in cui la strofa richiamava una sua risposta e  nel rispondere il mio amico Santipamma era insuperabile.
Lui era adibito al trasporto dell'uva sino al palmento con la sua  asina, ma tra un carico e l'altro si introduceva nei canti in maniera  magistrale ed imprevedibile; per lui la vendemmia era come una festa  di battesimo, cresima e di nozze messe insieme, se vedeva qualcuno che  tralasciava un grappolo era capace di insultarlo per ore, manco fosse  lui il padrone.
Era scontato che venisse sempre per la nostra vendemmia, non so se per  rispetto a mio nonno o perchè realmente mi reputava un suo amico o  perchè il vino della botte piccola era il più buono di tutta l'Etna.
Stava ben attento che il carico fosse ben bilanciato, io mi sentivo in  dovere di aiutare a trasportare i vari recipienti sino alle gerle ed  ero l'unico che oltre lui versavano i grappoli nelle gerle legate al  basto, cercavamo di fare l'operazione in sintonia non mettevamo mai un  grappolo in più del necessario, io poi avevo sempre una carruba da dare a ogni carico e l'asina strofinava sempre la testa sulla mia  spalla a mo di ringraziamento.
Quando arrivavamo al palmento, dopo la breve “trazzera” in pietra lavica  in cui avevo sempre il terrore che l'asina scivolasse, scaricavamo  all'unisono le due gerle nelle vasche; Santipamma aveva inventato un  sistema di sgancio delle gerle con supporti di elastico che fungevano  come i moderni cassoni ribaltabili poi prendevamo una vasca e fatta la  breve scala che portava alla finestra che dava alla pista del palmento  versavamo il tutto formando una montagnola di grappoli bianchi e neri  facendo volare un nugolo di vespe che attratte da quel ben di Dio  minacciavano dolorose punture, che stranamente avvenivano raramente; forse anche le veste e le api erano contagiate da quell'atmosfera di  festa o meglio erano stordite dall'alcol.
A metà giornata salivo in pista anch'io, a caricare ci pensava mio  fratello, diminuendo la necessità della raccolta e del trasporto  aumentava quella della pigiatura.
E li l'atmosfera era davvero inebriante. Era una vera e propria danza al dio Dionisio, si marciava in circo al passo strascicato con un  ritmo battuto dalla voce del capo pista assistita dal canto di antiche  canzoni.
Si spargevano dalla montagnola i grappoli, utilizzando delle zappe,  sulla pista sino a formare un tappeto di un palmo abbondante.

Il capo pista dava il via e con passo regolare si cercava di pestare il più possibile, quando gli schizzi arrivavano in faccia veniva dato il segnale per aprire la porticella che permetteva al mosto di prima pigiatura di arrivare al primo tino.
Quello era il mosto che mia nonna veniva a raccogliere con una "quartara" per poi fare il vin cotto, era il mosto più dolce, impossibile ad avere ora con i macchinari di pigiatura e con quel vin
cotto si facevano i "mustazzola".
Aiutandosi con una scopa si faceva scorrere il mosto dalla pista e con le pale e rastrelli si ammucchiava l'uva al centro.
Poi il capo pista ordinava: -U' Sceccu!
Questo era un tavolaccio rotondo che veniva posto sulla montagnola di uva pigiata e su questa si saliva e accompagnati da un canto ritmico si saltava, facendo attenzione a non scivolare pigiandosi ai rastrelli o pale che facevano d'appoggio.
Il capo pista spingeva il mosto che usciva con la scopa e poi ci ordinava di scendere quando il peso non sortiva più risultato.
Tolto “U' Sceccu” non una zappa si distribuiva l'uva a mo' di anello e si cominciava una marcia in cerchio a fila indiana con canto lento e struggente, canti classici, da carrettiere, a passo cadenzato.
Questa marcia formava un laghetto di mosto al centro dell'anello che il capo pista provvedeva a far defluire con una pala mentre distribuiva l'uva sotto i piedi dei pigiatori.
Quando il tutto prendeva un colore uniforme e di mosto ne colava poco, aiutandoci con le pale e i rastrelli, si versava questa pasta nel tino in cui era già raccolto il mosto e si ricominciava con altra uva appena colta.
Quando la vendemmia era quasi alla fine, di solito verso le 13,00 si faceva pausa per il Pranzo Pranzo composto da: salsiccia arrostita nella brace e/o sui "canali" (tegole) lavati con il vino, costolette di maiale, olive verdi condite con sottaceti (giardiniera), acciughe salate formaggio pecorino primo sale, tuma, caponata, parmigiana, gelatina di carne di maiale e vitello "u' suzu"; tutto accompagnato dal pane fresco fatto in casa nel forno a legna. Per frutta: i primi meloni gialli quelli che poi venivano mangiati a Natale, le pere coscia e le "pira 'mputiri" dell'Etna, mele cola profumatissime, gialle come il sole di inverno. E i dolci erano una gara tra le donne che partecipavano alla vendemmia: cannoli di ricotta, crostate, torte di ricotta, biscotti di mandorle e pistacchi. Io mi sedevo sul basto dell'asina di Santipamma, non prima di aver preso un fiasco di vino da mezzo litro per il mio amico e una manciata di biscotti per l'asina, che appena sentiva l'odore ragliava come un tenore dell'opera.
Santipamma versava il vino nel mio bicchiere con la giusta parsimonia, come a far intendere se ne vuoi altro ti alzi e o telo procuri o porti un altro fiasco, cosa che diventava impossibile poichè ero super controllato da tutti i familiari per evitare quello che avvenne una volta in cui Santipamma si ubriacò e l'asina non volle muoversi dal suo padrone costringendoci a portar l'ultima uva a spalle, memori di quel evento l'accordo era un fiasco e basta sino a fine vendemmia. Anche perchè quell'anno il mio amico per colpa dell'ubriacatura non scese lui nel tino a rompere e distribuire la pasta di raspi e bucce triturate, e guarda caso il vino venne pessimo pur avendo avuto una produzione favolosa. Questo era un compito un po' pericoloso poiché bisognava scendere dentro il tino pieno e le esalazioni della prima fermentazione potevano far perdere i sensi, per ogni evenienza si legava una corda attorno alla vita di chi era adibito a tal compito, nel caso di Santipamma era anche prevista per ordine di mia nonna anche la doccia con lavaggio completo, almeno prima dell'operazione e se poi voleva anche dopo. Lui giurava sempre che si era lavato la mattina stessa ma mia nonna era inflessibile. Usciva dalla sala torture con un bel costumino ascellare, lo si legava alla vita e poi come una sirena armata di zappa entrava nel mosto che la fermentazione aveva già cominciato a riscaldare, i più forti tenevano la cima della corda per ogni evenienza.
Santipamma si muoveva in quell'elemento come un pesce nel mare come un danzatore all'opera e quando finiva diceva sempre: -Putissi moriri 'nin'Tinu di vino!

venerdì 6 agosto 2010

LA BILANCIA DEI BALEK


Nel paese dei miei nonni, la maggior parte delle persone viveva del
lavoro di gramolatura del lino. Da cinque generazioni respiravano la
polvere dei gambi spezzati; si lasciavano uccidere lentamente, razze
pazienti e serene che mangiavano formaggio di capra, patate e, qualche
volta, ammazzavano un coniglio. La sera filavano e lavoravano la lana
nelle loro stanzette, cantavano, bevevano infuso di foglie di menta ed
erano felici. Di giorno gramolavano il lino con vecchie macchine, in
mezzo alla polvere e al calore che veniva dalle stufe, senza nessun
riparo, perché i fili asciugassero presto. Nelle loro stanze c’era un
solo letto, fatto come un armadio che era riservato ai genitori e i
bambini dormivano intorno, su delle panche. La mattina, le camere
erano piene dell’odore della zuppa fatta di farina, grasso ed acqua,
la domenica c’era lo Sterz ed i visi dei bambini diventavano rossi di
gioia quando, in giorni particolarmente solenni, il nero caffè di
ghiande si tingeva di chiaro, sempre più chiaro per il latte che la
mamma sorridendo versava nelle loro grandi tazze.
I genitori andavano presto al lavoro: ai bambini si lasciavano da fare
le faccende di casa; loro spazzavano la stanzetta, mettevano in
ordine, lavavano i piatti e pelavano le patate, preziosi frutti
giallognoli di cui dovevano poi far vedere la buccia sottile per
dissipare il sospetto di essere stati sconsiderati o sciuponi. Se i
bambini avevano finito la scuola, dovevano andare nei boschi a
raccogliere funghi ed erbe, il mughetto di bosco, il timo, il kummel,
la menta e anche la digitale e in estate, quando avevano tagliato il
fieno dei loro campi, ne raccoglievano i fiori. Un pfennig, per un
chilo di fiori di fieno che in città, nelle farmacie si vendevano
venti pfennig il chilo, alle signore nervose. I funghi erano preziosi:
valevano venti pfennig il chilo e in città, nei negozi, si pagavano un
marco e venti. In autunno, quando l’umidità faceva spuntare i funghi
dalla terra, i bambini andavano lontano, nell’oscurità verde dei
boschi; quasi ogni famiglia aveva il suo posto segreto dove
raccoglieva i funghi, posti tramandati sottovoce di generazione in
generazione.I boschi appartenevano ai Balek e anche i maceri, ed i Balek avevano,
nel villaggio di mio nonno, un castello; la moglie del capofamiglia
aveva una sua stanzetta vicino alla cucina dove portavano il latte, in
cui si pesavano e pagavano i funghi, le erbe e i fiori del fieno. Là
sul tavolo c’era la grande bilancia dei Balek, un oggetto antico,
dipinto, pieno di ghirigori in bronzo dorato, davanti alla quale già
si erano presentati i nonni di mio nonno, coi cestini dei funghi e i
sacchetti dei fiori del fieno nelle loro manine sporche di bimbi. E
stavano attenti, ansiosi a guardare quanti pesi avrebbe messo sulla
bilancia la signora Balek perché la lancetta oscillante arrivasse
proprio al segno nero, questa sottile linea della giustizia che doveva
venir ridipinta ogni anno. La signora Balek prendeva poi il grosso
libro con il dorso di pelle marrone, scriveva il peso e pagava,
pfennig e groschea e di rado, molto di rado, un marco.
E quando mio nonno era bambino c’era un grosso vaso di caramelle di
arancio e di limone, di quelle che costavano un marco al chilo. Se la
signora Balek – moglie del capofamiglia e padrona – era di buon umore,
prendeva dal vaso una caramella e ne dava una per uno ai bambini ed i
visi dei bambini diventavano rossi di gioia, rossi come quando la
mamma in giorni particolarmente solenni versava il latte nelle loro
grandi tazze da caffè, il latte che faceva il caffè chiaro, sempre più
chiaro finché diventava biondo come le trecce delle ragazze.
Una delle leggi che i Balek avevano dato al villaggio era: nessuno
deve avere in casa una bilancia. La legge era vecchia tanto che
nessuno sapeva più quando e come essa fosse sorta, ma bisognava
rispettarla, perché chi la violava sarebbe stato licenziato dal lavoro
della gramolatura del lino, da lui non avrebbero più comprato né
funghi, né timo, né i fiori del fieno e la potenza dei Balek era tale
che anche nei villaggi vicini nessuno gli avrebbe dato lavoro né
comprato da lui le erbe del bosco.
Ma da quando i nonni di mio nonno avevano raccolto da bambini i funghi
e li avevano dati per pochi soldi perché nelle cucine della gente
ricca di Praga profumassero l’arrosto o potessero venir nascosti e
cotti in pasticci, da allora nessuno aveva pensato di violare questa
legge.Per la farina c’erano le misure di legno, le uova si potevano contare,
la roba filata misurare a braccia; del resto la vecchia bilancia dei
Balek coi ghirigori in bronzo dorato non faceva l’effetto di non
essere giusta e cinque generazioni avevano affidato alla sua
oscillante lancetta nera quanto avevano raccolto con zelo infantile
nel bosco. Fra queste persone silenziose ce n’erano anche alcune che
disprezzavano la legge, alcune più prepotenti che desideravano
ardentemente di guadagnare in una notte più di quanto potessero
guadagnare in un mese intero nella fabbrica di lino, ma neppure a una
di quelle sembrò fosse mai venuta l’idea di comprare o fabbricarsi una
bilancia.Mio nonno era il primo che fosse ardito abbastanza da controllare la
giustizia dei Balek che abitavano al castello, avevano due carrozze,
mantenevano un giovane del villaggio a studiare teologia nel seminario
di Praga, da cui ogni mercoledì il parroco andava per giocare ai
tarocchi. A Capodanno ricevevano la visita d’omaggio del capitano del
distretto con lo stemma del Kaiser sulla carrozza e il Kaiser li aveva
fatti nobili, a Capodanno del 1900.
Mio nonno era intelligente e diligente; continuò a cercare i funghi
nei boschi, come prima di lui avevano fatto i bambini della sua razza,
arrivando fino alla macchia dove, secondo la saga, abita Bilgan il
gigante che veglia sul tesoro dei Balder.
Mio nonno non aveva paura di Bilgan: penetrava nella macchia già da
ragazzino, portava a casa gran bottino di funghi, trovava addirittura
tartufi che la signora Balek calcolava trenta pfennig ogni mezzo
chilo. Mio nonno annotava sul retro di un foglio di calendario tutto
quello che portava ai Balek: ogni mezzo chilo di funghi, ogni grammo
di timo e con la sua scrittura infantile scriveva a destra quello che
aveva ricevuto: da sette a dodici anni scarabocchiò con la sua
scrittura incerta ogni pfennig e quando ebbe dodici anni, venne l’anno
1900 ed i Balek regalarono ad ogni famiglia del villaggio, perché il
Kaiser li aveva fatti nobili, centoventicinque grammi di caffè vero,
di quello che viene dal Brasile: agli uomini birra gratis e anche
tabacco. Al castello ci fu una gran festa, molte carrozze sostavano nel viale
di pioppi che porta dall’ingresso al castello. Il giorno prima della
festa venne distribuito il caffè nella piccola stanza in cui stava,
già da quasi cent’anni, la bilancia dei Balek, che adesso si
chiamavano Balek von Bilgan perché, secondo la saga, Bilgan il gigante
avrebbe dovuto avere un gran castello là dove c’erano le case dei
Balek. Mio nonno mi ha raccontato spesso come fosse andato, dopo la
scuola, a prendere il caffè per quattro famiglie: per i Cech, i
Weidler, i Wohla e per la sua, i Brücher. Era il pomeriggio prima di
San Silvestro, bisognava adornare le stanze, fare i dolci e non si
voleva rinunciare a quattro ragazzini in una volta, far fare a
ciascuno la strada fino al castello per prendere centoventicinque
grammi di caffè. E così mio nonno stava seduto sulla stretta panca di
legno, nella piccola stanza dei Balek e si faceva contare da Gertrud,
la ragazza di servizio, i pacchetti già fatti da centoventicinque
grammi; quattro pacchetti, e guardava la bilancia sul cui piatto di
sinistra era rimasto il peso da mezzo chilo. La signora Balek von
Bilgan era occupata nei preparativi della festa. Quando Gertrud volle
prendere il vaso delle caramelle per darne una a mio nonno, si accorse
che era vuoto: veniva riempito una volta all’anno, ne conteneva un
chilo, di quelle da un marco.
Gertrud disse ridendo: — Aspetta, prendo quelle nuove, — e mio nonno
restò davanti alla bilancia con i quattro pacchetti da
centoventicinque grammi che erano stati impacchettati e incollati alla
fabbrica, restò davanti alla bilancia su cui qualcuno aveva lasciato
il peso da mezzo chilo e mio nonno prese i quattro pacchetti, li mise
nel piatto vuoto della bilancia e il suo cuore batté forte quando vide
che la lancetta della giustizia rimaneva a sinistra del segno, che il
piatto con il peso da mezzo chilo restava in basso e il mezzo chilo di
caffè restava in aria, abbastanza in alto. Il suo cuore batté più
forte, come se nel bosco, dietro un cespuglio, avesse aspettato Bilgan
il gigante: cercò nelle tasche dei sassolini che portava sempre con sé
per tirare con la fionda agli uccelli che beccavano i cavoli di sua
madre – tre, quattro, cinque sassolini dovette mettere vicino ai
pacchetti di caffè perché il piatto della bilancia con il peso da
mezzo chilo si alzasse e finalmente l’ago della bilancia coincidesse
esattamente con la lineetta nera. Mio nonno prese il caffè dalla
bilancia, avvolse i cinque sassolini nel suo fazzoletto e quando
Gertrud ritornò con il grosso sacchetto pieno di caramelle, che doveva
bastare un altro anno a far diventare rossi di gioia i volti dei
bambini, e rovesciò nel vaso le caramelle – che sembrarono una
gragnuola – il ragazzino pallido era ancora là e sembrava che non
fosse cambiato nulla. Mio nonno prese soltanto tre pacchetti, e
Gertrud guardò stupita e spaventata il ragazzino pallido che buttò la
caramella per terra, la calpestò e poi disse:— Voglio parlare con la signora Balek.
— Balek von Bilgan, prego, — disse Gertrud.
— Bene, Balek von Bilgan, — ma Gertrud rise e lui tornò al villaggio
nel buio, portò il caffè ai Cech, ai Weidler, e ai Wohla il loro caffè
e diede ad intendere che doveva ancora andare dal Parroco. Invece, coi
suoi cinque sassolini nel fazzoletto, camminò nel buio della notte.
Bisognò che camminasse molto prima di trovare chi avesse una bilancia,
chi potesse averla. Nei villaggi di Blaugau e di Bernau non c’era
nessuno che ne avesse una, lo sapeva, e li attraversò, finché dopo due
ore di marcia non arrivò nella piccola cittadina di Dielheim dove
abitava il farmacista Honig.
Dalla casa di Honig veniva il profumo di frittelle calde e il fiato di
Honig, quando aperse la porta al ragazzino intirizzito odorava già di
punch. Egli aveva fra le labbra sottili il sigaro bagnato, trattenne
per un attimo le mani fredde del ragazzino e chiese:
— Beh, i polmoni di tuo padre sono peggiorati?
— No, non vengo per la medicina, volevo...
— Mio nonno slegò il fazzoletto, tirò fuori i cinque sassolini, li tese a Honig e disse:
—Vorrei che mi pesaste questi. — Guardò impaurito nel viso di Honig e
poiché Honig non diceva niente, non si arrabbiava e nemmeno domandava
qualcosa, mio nonno disse: — È quello che manca alla giustizia. — Mio
nonno si accorse allora, entrando nella stanza riscaldata quant’erano
bagnati i suoi piedi. La neve era entrata nelle sue scarpe povere e
nel bosco i rami avevano scosso su di lui la neve che adesso si
scioglieva, e lui era stanco, e aveva fame e cominciò improvvisamente
a piangere perché gli vennero in mente tutti i funghi, le erbe
aromatiche e i fiori che erano stati pesati sulla bilancia in cui
cinque sassolini mancavano al peso giusto. E quando Honig, scuotendo
la testa, con i cinque sassolini in mano, chiamò sua moglie, nella
mente di mio nonno passarono le generazioni dei suoi genitori, dei
suoi nonni, che avevano dovuto lasciare tutti i loro funghi, tutti i
loro fiori sulla bilancia, fu sommerso come da una grande ondata di
ingiustizia e cominciò a piangere ancora più forte. Si sedette, senza
che nessuno glielo dicesse, su una delle seggiole nella stanza di
Honig, non vide nemmeno le frittelle, la tazza di caffè caldo che la
buona e grassa signora Honig gli aveva messo davanti, e smise di
piangere solo quando Honig ritornò dal negozio e scuotendo i sassolini
nella mano, disse a sua moglie:— Cinquantacinque grammi esatti. —
Mio nonno ritornò indietro per il
bosco, due ore e mezza di cammino; a casa si lasciò bastonare, tacque
e quando gli chiesero del caffè non disse una parola; per tutta la
sera fece i conti sul suo foglietto, su cui aveva annotato tutto
quello che aveva consegnato alla signora Balek von Bilgan e quando
suonò mezzanotte e dal castello si sentirono gli scoppi dei petardi e
in tutto il villaggio urla e tintinnio di sonagli, dopo che la
famiglia si era abbracciata e baciata, disse nel silenzio che seguiva
il nuovo anno: — I Balek mi devono diciotto marchi e trentadue
pfennig. — E pensava di nuovo ai molti bambini del villaggio, pensava
a suo fratello Fritz, che aveva raccolto tanti funghi, pensava a sua
sorella Ludmilla, pensava alle centinaia di bambini tutti che avevano
raccolto funghi per i Balek, erbe aromatiche e fiori di fieno e questa
volta non pianse, ma raccontò invece ai genitori e ai fratelli la sua
scoperta. Quando i Balek von Bilgan, il primo dell’anno andarono in chiesa per
l’ufficio solenne con il nuovo stemma – un gigante accovacciato sotto
un abete – in blu e oro già sulla carrozza, videro che la gente li
fissava con visi duri sbiancati e pallidi. Al villaggio, si erano
aspettati ghirlande, la mattina un saluto musicale, gridi di evviva e
di giubilo, ma il villaggio, mentre lo attraversavano, sembrava morto,
e in chiesa si volgevano contro di loro i pallidi visi della gente,
muti e nemici. Quando il parroco sali sul pulpito per tenere la
predica solenne, senti la freddezza dei visi di solito così tranquilli
e sereni, raffazzonò a fatica la sua predica e tornò all’altare
grondante di sudore. E quando i Balek von Bilgan dopo la messa
abbandonarono la chiesa passarono attraverso una schiera di visi muti
e pallidi. La giovane signora Balek von Bilgan si fermò però davanti
alle panche dei bambini, cercò il viso di mio nonno, il piccolo,
pallido Franz Brücher, e gli domandò, in chiesa:
— Perché non hai preso il caffè per tua madre?
- Perché Lei mi deve tanti soldi quanti ne bastano per cinque chili di
caffè. — E tirò fuori dalla tasca i cinque sassolini, li tese alla
giovane signora e disse: — Così tanto, cinquantacinque grammi mancano
ad un mezzo chilo della Sua giustizia. — E prima ancora che la signora
potesse dire qualcosa gli uomini e le donne, in chiesa intonarono il
canto: “O Signore, la giustizia della terra ti ha ucciso...”
Mentre i Balek erano in chiesa, Wilhelm Wohla, il prepotente, era
entrato nella piccola stanza, aveva rubato la bilancia e il grosso
libro pesante rilegato in pelle, in cui era annotato ogni chilo di
funghi, ogni chilo di fiori di fieno, tutto quanto era stato comprato
dai Balek nel villaggio. L’intero pomeriggio di Capodanno gli uomini
del villaggio restarono nella stanza dei miei bisnonni e contarono,
contarono contarono un decimo di tutto quello che era stato comprato,
ma quando ebbero contate molte migliaia di talleri e non erano ancora
arrivati alla fine, vennero i gendarmi del capitano del distretto,
entrarono sparando e pungendo di baionetta nella stanza dei miei
bisnonni e ripresero con la forza la bilancia e il libro. La sorella
di mio nonno, la piccola Ludmilla, venne uccisa, furono feriti un paio
di uomini e uno dei gendarmi venne pugnalato da Wilhelm Wohla, il
prepotente.La sommossa non fu solo nel nostro villaggio, ma anche a Blaugau e a
Bernau e per una settimana non si lavorò nelle fabbriche di lino.
Vennero molti gendarmi e gli uomini e le donne furono minacciati di
prigione e i Balek costrinsero il parroco a mostrare pubblicamente
nella scuola la bilancia e a dimostrare che l’ago della giustizia
oscillava come doveva. E gli uomini e le donne tornarono nelle
fabbriche di lino, ma nessuno andò a scuola per vedere il parroco: era
solo triste e indifeso, con i suoi pesi, la bilancia e i sacchetti del
caffè. I bambini raccolsero ancora funghi, raccolsero ancora timo,
fiori di fieno e digitale, ma ogni domenica, appena i Balek entravano
chiesa, si intonava: “O Signore, la giustizia della terra, ti ha
ucciso” finché il capitano del distretto non fece bandire in tutti i
villaggi che era proibito cantare questo inno. I genitori di mio nonno
dovettero lasciare il villaggio, la tomba fresca della loro piccola:
si misero a intrecciare cesti di vimini, non restarono a lungo in
nessun luogo perché li addolorava vedere come dappertutto il pendolo
della giustizia battesse falso e sbagliato.
Dietro il carro che strisciava lentamente sulla strada, si tiravano
dietro le loro magre capre e chi passava vicino al carro poteva
sentire qualche volta dentro cantare: “O Signore, la giustizia della
terra ti ha ucciso”. Chi li voleva ascoltare poteva sentire la storia
dei Balek von Bilgan alla cui giustizia mancava un decimo. Ma quasi
nessuno li stava a sentire.

Gesammelte Erzählungen von Heinrich Böll

Traduzione di Lea Ritter Santini
da
Racconti umoristici e satirici

martedì 6 luglio 2010

LA MORTE DI ARCHIMEDE



di Karel Čapek


È che la storia di Archimede non andò proprio così come è stato scritto; è vero sì che fu ucciso quando i romani presero Siracusa, ma non è esatto dire che entrò in casa sua un soldato romano per saccheggiarla e che Archimede, intento a disegnare una qualche costruzione geometrica, gli ringhiò con aria scontrosa: «Non mi rovinare i miei cerchi!»

In primo luogo Archimede non era affatto un distratto professore che non sa quel che gli succede intorno; anzi, era per natura un autentico soldato, che aveva progettato per Siracusa delle valide macchine da guerra, destinate alla difesa della città; in secondo luogo poi, il soldatino romano non era affatto un predone ubriaco, ma il colto e ambizioso capitano di stato maggiore Lucius, che sapeva bene con chi aveva l’onore di parlare, e non era venuto per saccheggiare, ma sulla soglia fece il saluto militare e disse: «Salute a te, Archimede».

Archimede alzò gli occhi dalla tavoletta di cera, sulla quale davvero stava disegnando qualcosa, e disse:

— Che c’è?

— Archimede, — fece Lucius, — noi sappiamo che senza le tue valide macchine da guerra Siracusa non avrebbe retto nemmeno un mese; invece abbiamo dovuto lottare due anni. Cosa credi, noi soldati ce ne intendiamo. Magnifiche macchine. Complimenti.

Archimede fece un gesto con la mano. — Per favore, non sono niente di straordinario. Normali meccanismi da lancio... una specie di giochetto insomma. Scientificamente non ha grande importanza.

— Ma militarmente sì, — osservò Lucius. — Ascolta, Archimede, sono venuto a chiederti di lavorare con noi.

— Con chi?

— Con noi romani. Devi pure sapere che Cartagine è in rovina. Perché aiutarli ancora! Ora daremo una bella lezione a Cartagine, vedrai. Sarebbe meglio che vi metteste con noi, voi tutti.

— Perché? — borbottò Archimede, — casualmente noi siracusani siamo greci. Perché dovremmo venire con voi?

— Perché vivete in Sicilia, e noi abbiamo bisogno della Sicilia.

— E perché ne avete bisogno?

— Perché vogliamo avere il dominio sul mar Mediterraneo.

— Ma, — fece Archimede e guardò pensoso la sua tavoletta.

— E perché lo volete?

— Chi domina il mar Mediterraneo, — disse Lucius, — domina il mondo. Eppure è chiaro.

— E che, dovete dominare il mondo?

— Sì. La missione di Roma è di avere il dominio del mondo. E ti dico che lo avrà.

— Forse, — disse Archimede mentre cancellava qualcosa dalla tavoletta di cera.

— Ma non ve lo consiglierei, Lucius. Ascolta, dominare il mondo: questo vi porterà un giorno atroci lotte per difendervi. Non pensi all’inutile fatica che ve ne verrà?

— Non importa; ma avremo un grande impero.

— Un grande impero, — bofonchiò Archimede. — Se disegno un cerchio piccolo o uno grande, è sempre e solo un cerchio. Le frontiere ci sono sempre; non potrete mai non avere delle frontiere, Lucius. Pensi che un cerchio grande sia più perfetto di uno piccolo? Pensi di essere un miglior geometra se disegni un cerchio più grande?

— Voi greci giocate sempre con le parole, — obiettò il capitano Lucius. — Allora vi dimostreremo che siamo nel giusto altrimenti.

— Come?

— Coi fatti. Per esempio, abbiamo preso la vostra Siracusa. Ergo Siracusa ci appartiene. È una prova chiara?

— Sì, — disse Archimede grattandosi la testa con lo stilo. — Sì, avete preso Siracusa; solo che ormai Siracusa non è né sarà mai più quello che è stata fino ad oggi. Era una grande e gloriosa città, ragazzo; ora non sarà mai più grande. Peccato per Siracusa!

— Invece Roma sarà grande. Roma deve essere la più forte di tutto il mondo.

— Perché?

— Per resistere. Più siamo forti, più avremo nemici. Per questo dobbiamo essere i più forti.

— Per quanto riguarda la forza, — bofonchiò Archimede. — Io sono anche un po’ fisico, Lucius, e ti dico qualcosa. La forza si applica.

— Che significa?

— È una specie di legge, Lucius. Una forza che agisce deve applicarsi. Quanto più sarete forti, tanto più consumerete per questo la vostra forza; e un giorno verrà il momento...

— Che hai voluto dire?

— Ma niente. Non sono un profeta, ragazzo; sono solo un fisico. La forza si applica. Di più non so.

— Senti, Archimede, non vorresti lavorare con noi? Non hai idea di quali enormi possibilità ti si aprirebbero a Roma. Potresti costruire le migliori macchine da guerra del mondo...

— Mi devi scusare, Lucius; sono un vecchio, ma vorrei ancora sviluppare un paio di mie idee... Come vedi, sto proprio disegnando qualcosa.

— Archimede, non ti attira raggiungere con noi il dominio del mondo?... Perché non parli?

— Scusa, — borbottò Archimede chino sulla sua tavoletta.

— Cosa hai detto?

— Che un uomo come te potrebbe raggiungere il dominio del mondo.

— Hm, il dominio del mondo, — fece Archimede assorto. — Non arrabbiarti, ma ora ho qualcosa di più importante da fare. Sai, qualcosa di più durevole. Qualcosa che davvero rimarrà.

— Che cos’è?

— Attento, non mi cancellare i miei cerchi! È il metodo con cui si può calcolare l’area di un settore circolare.

Più tardi fu tramandata la storia che il dotto Archimede perse la vita per caso.