Sono i giorni che mi riportano in mente la vendemmia.
Mi reputo fortunato di avere ancora la memoria della vendemmia così come si faceva una volta; quella senza nessun strumento elettrico o a motore, solo uomini, donne, bambini, animali e tanta gioia.
Non era un lavoro era una festa, anche se avevi una grande vigna e dovevi pagare degli operai la vendemmia veniva vissuta con uno spirito di estrema allegria.
Ci si alzava preso, prima che sorgesse il sole.
Per essere alle prime luci dell'alba tra i filari.
Non pensate alle vigne a pergolati, all'epoca le viti da noi erano ancora coltivate basse, gli ultimi lavori fatti erano quelli della “rifunnuta”, una zappata che serviva a coprire bene le radici fatta a luglio per evitare che il caldo torrido dell'estate asciugasse troppo la pianta, e poi solo zolfo, irrorazioni con poltiglia bordolese, una miscela di verderame e calce e tante preghiere che non ci fossero precipitazioni intense con grandine. Scampati i pericoli della peronospora e del tempo, si ci preparava alla vendemmia.
I più ricchi avevano il palmento di proprietà altri dovevano affiatarlo e quindi far coincidere il giorno della raccolta con quello della pigiatura. Stabilito il giorno, si invitavano i parenti, gli amici e se la vigna era grande prenotare la manodopera.
I primi minuti di raccolta si svolgevano in silenzio, poi come se uscisse dal profondo della terra un suono gutturale iniziava un canto che da struggente diveniva sempre più allegro, erano canti popolari, i più belli erano quelli in cui la strofa richiamava una sua risposta e nel rispondere il mio amico Santipamma era insuperabile.
Lui era adibito al trasporto dell'uva sino al palmento con la sua asina, ma tra un carico e l'altro si introduceva nei canti in maniera magistrale ed imprevedibile; per lui la vendemmia era come una festa di battesimo, cresima e di nozze messe insieme, se vedeva qualcuno che tralasciava un grappolo era capace di insultarlo per ore, manco fosse lui il padrone.
Era scontato che venisse sempre per la nostra vendemmia, non so se per rispetto a mio nonno o perchè realmente mi reputava un suo amico o perchè il vino della botte piccola era il più buono di tutta l'Etna.
Stava ben attento che il carico fosse ben bilanciato, io mi sentivo in dovere di aiutare a trasportare i vari recipienti sino alle gerle ed ero l'unico che oltre lui versavano i grappoli nelle gerle legate al basto, cercavamo di fare l'operazione in sintonia non mettevamo mai un grappolo in più del necessario, io poi avevo sempre una carruba da dare a ogni carico e l'asina strofinava sempre la testa sulla mia spalla a mo di ringraziamento.
Quando arrivavamo al palmento, dopo la breve “trazzera” in pietra lavica in cui avevo sempre il terrore che l'asina scivolasse, scaricavamo all'unisono le due gerle nelle vasche; Santipamma aveva inventato un sistema di sgancio delle gerle con supporti di elastico che fungevano come i moderni cassoni ribaltabili poi prendevamo una vasca e fatta la breve scala che portava alla finestra che dava alla pista del palmento versavamo il tutto formando una montagnola di grappoli bianchi e neri facendo volare un nugolo di vespe che attratte da quel ben di Dio minacciavano dolorose punture, che stranamente avvenivano raramente; forse anche le veste e le api erano contagiate da quell'atmosfera di festa o meglio erano stordite dall'alcol.
A metà giornata salivo in pista anch'io, a caricare ci pensava mio fratello, diminuendo la necessità della raccolta e del trasporto aumentava quella della pigiatura.
E li l'atmosfera era davvero inebriante. Era una vera e propria danza al dio Dionisio, si marciava in circo al passo strascicato con un ritmo battuto dalla voce del capo pista assistita dal canto di antiche canzoni.
Si spargevano dalla montagnola i grappoli, utilizzando delle zappe, sulla pista sino a formare un tappeto di un palmo abbondante.
Il capo pista dava il via e con passo regolare si cercava di pestare il più possibile, quando gli schizzi arrivavano in faccia veniva dato il segnale per aprire la porticella che permetteva al mosto di prima pigiatura di arrivare al primo tino.
Quello era il mosto che mia nonna veniva a raccogliere con una "quartara" per poi fare il vin cotto, era il mosto più dolce, impossibile ad avere ora con i macchinari di pigiatura e con quel vin
cotto si facevano i "mustazzola".
Aiutandosi con una scopa si faceva scorrere il mosto dalla pista e con le pale e rastrelli si ammucchiava l'uva al centro.
Poi il capo pista ordinava: -U' Sceccu!
Questo era un tavolaccio rotondo che veniva posto sulla montagnola di uva pigiata e su questa si saliva e accompagnati da un canto ritmico si saltava, facendo attenzione a non scivolare pigiandosi ai rastrelli o pale che facevano d'appoggio.
Il capo pista spingeva il mosto che usciva con la scopa e poi ci ordinava di scendere quando il peso non sortiva più risultato.
Tolto “U' Sceccu” non una zappa si distribuiva l'uva a mo' di anello e si cominciava una marcia in cerchio a fila indiana con canto lento e struggente, canti classici, da carrettiere, a passo cadenzato.
Questa marcia formava un laghetto di mosto al centro dell'anello che il capo pista provvedeva a far defluire con una pala mentre distribuiva l'uva sotto i piedi dei pigiatori.
Quando il tutto prendeva un colore uniforme e di mosto ne colava poco, aiutandoci con le pale e i rastrelli, si versava questa pasta nel tino in cui era già raccolto il mosto e si ricominciava con altra uva appena colta.
Quando la vendemmia era quasi alla fine, di solito verso le 13,00 si faceva pausa per il Pranzo Pranzo composto da: salsiccia arrostita nella brace e/o sui "canali" (tegole) lavati con il vino, costolette di maiale, olive verdi condite con sottaceti (giardiniera), acciughe salate formaggio pecorino primo sale, tuma, caponata, parmigiana, gelatina di carne di maiale e vitello "u' suzu"; tutto accompagnato dal pane fresco fatto in casa nel forno a legna. Per frutta: i primi meloni gialli quelli che poi venivano mangiati a Natale, le pere coscia e le "pira 'mputiri" dell'Etna, mele cola profumatissime, gialle come il sole di inverno. E i dolci erano una gara tra le donne che partecipavano alla vendemmia: cannoli di ricotta, crostate, torte di ricotta, biscotti di mandorle e pistacchi. Io mi sedevo sul basto dell'asina di Santipamma, non prima di aver preso un fiasco di vino da mezzo litro per il mio amico e una manciata di biscotti per l'asina, che appena sentiva l'odore ragliava come un tenore dell'opera.
Santipamma versava il vino nel mio bicchiere con la giusta parsimonia, come a far intendere se ne vuoi altro ti alzi e o telo procuri o porti un altro fiasco, cosa che diventava impossibile poichè ero super controllato da tutti i familiari per evitare quello che avvenne una volta in cui Santipamma si ubriacò e l'asina non volle muoversi dal suo padrone costringendoci a portar l'ultima uva a spalle, memori di quel evento l'accordo era un fiasco e basta sino a fine vendemmia. Anche perchè quell'anno il mio amico per colpa dell'ubriacatura non scese lui nel tino a rompere e distribuire la pasta di raspi e bucce triturate, e guarda caso il vino venne pessimo pur avendo avuto una produzione favolosa. Questo era un compito un po' pericoloso poiché bisognava scendere dentro il tino pieno e le esalazioni della prima fermentazione potevano far perdere i sensi, per ogni evenienza si legava una corda attorno alla vita di chi era adibito a tal compito, nel caso di Santipamma era anche prevista per ordine di mia nonna anche la doccia con lavaggio completo, almeno prima dell'operazione e se poi voleva anche dopo. Lui giurava sempre che si era lavato la mattina stessa ma mia nonna era inflessibile. Usciva dalla sala torture con un bel costumino ascellare, lo si legava alla vita e poi come una sirena armata di zappa entrava nel mosto che la fermentazione aveva già cominciato a riscaldare, i più forti tenevano la cima della corda per ogni evenienza.
Santipamma si muoveva in quell'elemento come un pesce nel mare come un danzatore all'opera e quando finiva diceva sempre: -Putissi moriri 'nin'Tinu di vino!