SOLO QUELLI CHE SONO COSI' FOLLI DA PENSARE DI CAMBIARE IL MONDO, LO CAMBIANO DAVVERO (A.Einstein)

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venerdì 20 gennaio 2012

Attia di l'ovu





Passavo d'avanti alla Putia di Donna Mara e una voce dal profondo buio mi chiamo.
Facile era attribuirgli la proprietà anche perchè l'asina era legata al tronco del minicuccu (bagolaro o Celtis australis L.) che era riuscito a farsi strada tra i blocchi di pietra lavica della sporca casetta che fungeva da putia.
Entrai e sedendomi salutai il mio amico Santipamma che era stranamente ancora sobrio e con il suo litro di vinaccio ancora quasi intonso e che veniva servito a 150 lire.
A Zà Mara fu prontissima a portarmi un bicchiere quasi pulito e ancora grondante d'acqua che certificava l'accurata igiene del posto. Aveva voglia di parlare e io di ascoltarlo.
- A sai a storia di "Attia di l'ovu"?
- Ho sentito l'esclamazione ma non so la storia.
Risposi.
E oggi voglio tradurvi questa storia che mi costò 300 lire, un bruciore di stomaco meno due bicchieri, causa del bruciore prima detto.
Don Caluriu era un Massaro del Principe M.
Un giorno vide Turriddu un ragazzo che lavorava alacremente e con impegno, lo chiamo e complimentandosi per la sua dedizione al lavoro gli regalo un uovo raccomandandosi di non dir niente ai suoi compagni.

Un uovo era una bene inimmaginabile per quei poveretti costretti a vivere un gradino più su delle bestie.
Don Caloriu fatto il suo giro di controllo era solito sedere sotto un secolare albero d'ulivo che dominava l'appezzamento di terreno.
Ogni tanto svegliandosi e notando i lavoranti che rallentavano il ritmo urlava:

-Attia di l'ovu!

E miracolosamente i suoi uomini riprendevano a lavorare come bestie qual erano ridotti.
Una mattina mentre era seduto sotto il solito ulivo arrivò un cavaliere che lo chiamò urgentemente al cospetto del principe.
Appena il Massaro fu lontano dalla vista dei lavoranti tutti alzarono la schiena e si fermarono.
Il più vecchio portandosi la mano sulla coppola disse:
- Sono il più anziano e quindi tocca a me dirigere il lavoro.
Ma a questa affermazione si creò subito una discussione.
Chi diceva che toccava a lui comandare perchè era da più tempo sotto le dipendenze, chi vantava lontane parentele con il Massaro e chi affermava che essendo l'unico che sapesse leggere aveva i requisiti giusti per comandare.
In un momento di toni meno accesi si sentì Turiddu dire:
-Sbagliate tutti tocca a me comandare!
- e perchè?
Chiesero tutti.
-Perchè io ho la stima del Massaro e infatti mi ha anche regalato un uovo!
- anche a me!
- anche a me! ...
e così scoprirono che erano tutti:
- Attia di l'ovu!
Tutti che per un favore ricevuto sacrificavano senza dolersi la loro vita.
Il detto resta nel DNA dei siciliani poichè sono sempre convinti di avere ricevuto chissà quale favore a farsi sottomettere dai loro politicanti, come dimostrano le percentuali plebiscitarie con cui eleggono certi individui.

mercoledì 2 novembre 2011

Dialogo di Santipamma con la sete



Pi' l'animu mio
nu bicchiareddu di syrah
po'  me spiritu
nquattu iniuru d'avula
pi' l'armuzza mia
nu ciaschiteddu di mascalisi
pi l'avista l'occhi
na dammigianedda i zibibbu
e pa' me siti ca non finisci
nu carratennu i massala



mercoledì 22 dicembre 2010

a Truvatura




Nelle notti di eclisse di luna la possibilità di sciogliere le truvature sono quasi del 100 per 100.
Non erano queste le parole ma il senso si del discorso che mi fece Santipamma una volta in cui feci cenno all’eclisse che ci sarebbe stata quella notte.
Secondo lui c’erano due tipi di Truvature una legata al sole e una legata alla luna, e di conseguenza la possibilità di scioglierle erano maggiori durante l’eclisse di sole per le prime e di luna per le seconde.
Di Truvature c’è ne quasi una per ogni luogo nel mia terra, forse a causa della necessità che la popolazione sfruttata e verseggiata ha di sperare in un futuro migliore.
Nel mio paese si favoleggiava di una Truvatura che si deve trovare nella cripta della Chiesa sconsacrata di San Vito nella frazione dei nuzzari a pochi metri del cimitero; una botte piena di monete d’oro e di gioielli era la ricompensa, naturalmente il più grande esperto di botti che sia mai esistito sapete bene chi sia…
Venivano chiamati nuzzari gli abitanti di quella frazione del mio paese poiché vi era una forte presenza di allevatori di tacchini che in dialetto vengono chiamati nuzza. La piazzetta antistante alla chiesetta era coronata da ulivi selvatici e stranamente era ed è una delle piazze meno frequentate sia dagli adulti che da noi ragazzi, ragazzi d’allora naturalmente. Richiamandola alla mente non posso dire che sia una brutta piazza, malinconica forse..ma la presenza a pochi metri del cimitero la rendeva poco attraente anche per giocarci al pallone.
Santipamma mi spiegò come si dovesse sciogliere la truvatura:

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Entrare nella chiesa prima di mezzanotte o durante una eclisse di luna e qui non ci sono difficoltà basta forzare il vecchio portone.
Bisogna avere con se uno di nome Vito e di Vito in paese ne esistono abbastanza c’era Vitu minchiamotta che per un arancino era disposto a tutto.
Una vergine e questo era un bel problema, tutte quelle che conoscevo non erano più vergini, alcune per merito mio, ma tra le figlie di Maria un paio, data la loro somiglianza ai fiaschi tanto amati dal mio amico, promettevano ancora di poter arrivare all'oro.
Vito doveva aprire la botola e far strada sino al centro della cripta, disegnare un cerchio con un bastone di ferula: altro che Doris, già all’epoca si usavano questi mezzi per procurasi le ricchezze.
Tutti i presenti dovevano porsi al centro del cerchio e senza mostrare paura, ribrezzo o invocare i Santi aspettare che alla mezzanotte comparisse una Biddrina, che si sarebbe attorcigliata e leccato i presenti. Se nessuno avesse provato paura o ribrezzo questa si sarebbe trasformata in una chioccia d'oro e in 7 pulcini. Bisogna essere bravi a catturarli tutti e solo allora si sarebbe aperto un passaggio per dove si dovrebbe trovare la botte. Il varco deve essere attraversato per prima dalla vergine ma solo toccando tutti e tre la botte contemporaneamente la fattura verrà sciolta.

La storia si concludeva con la frase:
- Ma poi cu tutto 'st’oru chi'ni facemo?
-Sicuru ca saremu chiù felici?

mercoledì 27 ottobre 2010

Tempo di vendemmia


Sono i giorni che mi riportano in mente la vendemmia.
Mi reputo fortunato di avere ancora la memoria della vendemmia così come si faceva una volta; quella senza nessun strumento elettrico o a motore, solo uomini, donne, bambini, animali e tanta gioia.
Non era un lavoro era una festa, anche se avevi una grande vigna e dovevi pagare degli operai la vendemmia veniva vissuta con uno spirito  di estrema allegria.
Ci si alzava preso, prima che sorgesse il sole.
Per essere alle prime luci dell'alba tra i filari.
Non pensate alle vigne a pergolati, all'epoca le viti da noi erano  ancora coltivate basse, gli ultimi lavori fatti erano quelli della “rifunnuta”, una zappata che serviva a coprire bene le radici fatta a  luglio per evitare che il caldo torrido dell'estate asciugasse troppo  la pianta, e poi solo zolfo, irrorazioni con poltiglia bordolese, una  miscela di verderame e calce e tante preghiere che non ci fossero  precipitazioni intense con grandine. Scampati i pericoli della  peronospora e del tempo, si ci preparava alla vendemmia.
I più ricchi avevano il palmento di proprietà altri dovevano  affiatarlo e quindi far coincidere il giorno della raccolta con quello  della pigiatura. Stabilito il giorno, si invitavano i parenti, gli  amici e se la vigna era grande prenotare la manodopera.
I primi minuti di raccolta si svolgevano in silenzio, poi come se  uscisse dal profondo della terra un suono gutturale iniziava un canto  che da struggente diveniva sempre più allegro, erano canti popolari, i  più belli erano quelli in cui la strofa richiamava una sua risposta e  nel rispondere il mio amico Santipamma era insuperabile.
Lui era adibito al trasporto dell'uva sino al palmento con la sua  asina, ma tra un carico e l'altro si introduceva nei canti in maniera  magistrale ed imprevedibile; per lui la vendemmia era come una festa  di battesimo, cresima e di nozze messe insieme, se vedeva qualcuno che  tralasciava un grappolo era capace di insultarlo per ore, manco fosse  lui il padrone.
Era scontato che venisse sempre per la nostra vendemmia, non so se per  rispetto a mio nonno o perchè realmente mi reputava un suo amico o  perchè il vino della botte piccola era il più buono di tutta l'Etna.
Stava ben attento che il carico fosse ben bilanciato, io mi sentivo in  dovere di aiutare a trasportare i vari recipienti sino alle gerle ed  ero l'unico che oltre lui versavano i grappoli nelle gerle legate al  basto, cercavamo di fare l'operazione in sintonia non mettevamo mai un  grappolo in più del necessario, io poi avevo sempre una carruba da dare a ogni carico e l'asina strofinava sempre la testa sulla mia  spalla a mo di ringraziamento.
Quando arrivavamo al palmento, dopo la breve “trazzera” in pietra lavica  in cui avevo sempre il terrore che l'asina scivolasse, scaricavamo  all'unisono le due gerle nelle vasche; Santipamma aveva inventato un  sistema di sgancio delle gerle con supporti di elastico che fungevano  come i moderni cassoni ribaltabili poi prendevamo una vasca e fatta la  breve scala che portava alla finestra che dava alla pista del palmento  versavamo il tutto formando una montagnola di grappoli bianchi e neri  facendo volare un nugolo di vespe che attratte da quel ben di Dio  minacciavano dolorose punture, che stranamente avvenivano raramente; forse anche le veste e le api erano contagiate da quell'atmosfera di  festa o meglio erano stordite dall'alcol.
A metà giornata salivo in pista anch'io, a caricare ci pensava mio  fratello, diminuendo la necessità della raccolta e del trasporto  aumentava quella della pigiatura.
E li l'atmosfera era davvero inebriante. Era una vera e propria danza al dio Dionisio, si marciava in circo al passo strascicato con un  ritmo battuto dalla voce del capo pista assistita dal canto di antiche  canzoni.
Si spargevano dalla montagnola i grappoli, utilizzando delle zappe,  sulla pista sino a formare un tappeto di un palmo abbondante.

Il capo pista dava il via e con passo regolare si cercava di pestare il più possibile, quando gli schizzi arrivavano in faccia veniva dato il segnale per aprire la porticella che permetteva al mosto di prima pigiatura di arrivare al primo tino.
Quello era il mosto che mia nonna veniva a raccogliere con una "quartara" per poi fare il vin cotto, era il mosto più dolce, impossibile ad avere ora con i macchinari di pigiatura e con quel vin
cotto si facevano i "mustazzola".
Aiutandosi con una scopa si faceva scorrere il mosto dalla pista e con le pale e rastrelli si ammucchiava l'uva al centro.
Poi il capo pista ordinava: -U' Sceccu!
Questo era un tavolaccio rotondo che veniva posto sulla montagnola di uva pigiata e su questa si saliva e accompagnati da un canto ritmico si saltava, facendo attenzione a non scivolare pigiandosi ai rastrelli o pale che facevano d'appoggio.
Il capo pista spingeva il mosto che usciva con la scopa e poi ci ordinava di scendere quando il peso non sortiva più risultato.
Tolto “U' Sceccu” non una zappa si distribuiva l'uva a mo' di anello e si cominciava una marcia in cerchio a fila indiana con canto lento e struggente, canti classici, da carrettiere, a passo cadenzato.
Questa marcia formava un laghetto di mosto al centro dell'anello che il capo pista provvedeva a far defluire con una pala mentre distribuiva l'uva sotto i piedi dei pigiatori.
Quando il tutto prendeva un colore uniforme e di mosto ne colava poco, aiutandoci con le pale e i rastrelli, si versava questa pasta nel tino in cui era già raccolto il mosto e si ricominciava con altra uva appena colta.
Quando la vendemmia era quasi alla fine, di solito verso le 13,00 si faceva pausa per il Pranzo Pranzo composto da: salsiccia arrostita nella brace e/o sui "canali" (tegole) lavati con il vino, costolette di maiale, olive verdi condite con sottaceti (giardiniera), acciughe salate formaggio pecorino primo sale, tuma, caponata, parmigiana, gelatina di carne di maiale e vitello "u' suzu"; tutto accompagnato dal pane fresco fatto in casa nel forno a legna. Per frutta: i primi meloni gialli quelli che poi venivano mangiati a Natale, le pere coscia e le "pira 'mputiri" dell'Etna, mele cola profumatissime, gialle come il sole di inverno. E i dolci erano una gara tra le donne che partecipavano alla vendemmia: cannoli di ricotta, crostate, torte di ricotta, biscotti di mandorle e pistacchi. Io mi sedevo sul basto dell'asina di Santipamma, non prima di aver preso un fiasco di vino da mezzo litro per il mio amico e una manciata di biscotti per l'asina, che appena sentiva l'odore ragliava come un tenore dell'opera.
Santipamma versava il vino nel mio bicchiere con la giusta parsimonia, come a far intendere se ne vuoi altro ti alzi e o telo procuri o porti un altro fiasco, cosa che diventava impossibile poichè ero super controllato da tutti i familiari per evitare quello che avvenne una volta in cui Santipamma si ubriacò e l'asina non volle muoversi dal suo padrone costringendoci a portar l'ultima uva a spalle, memori di quel evento l'accordo era un fiasco e basta sino a fine vendemmia. Anche perchè quell'anno il mio amico per colpa dell'ubriacatura non scese lui nel tino a rompere e distribuire la pasta di raspi e bucce triturate, e guarda caso il vino venne pessimo pur avendo avuto una produzione favolosa. Questo era un compito un po' pericoloso poiché bisognava scendere dentro il tino pieno e le esalazioni della prima fermentazione potevano far perdere i sensi, per ogni evenienza si legava una corda attorno alla vita di chi era adibito a tal compito, nel caso di Santipamma era anche prevista per ordine di mia nonna anche la doccia con lavaggio completo, almeno prima dell'operazione e se poi voleva anche dopo. Lui giurava sempre che si era lavato la mattina stessa ma mia nonna era inflessibile. Usciva dalla sala torture con un bel costumino ascellare, lo si legava alla vita e poi come una sirena armata di zappa entrava nel mosto che la fermentazione aveva già cominciato a riscaldare, i più forti tenevano la cima della corda per ogni evenienza.
Santipamma si muoveva in quell'elemento come un pesce nel mare come un danzatore all'opera e quando finiva diceva sempre: -Putissi moriri 'nin'Tinu di vino!

lunedì 10 maggio 2010

La fossa




Incontrai Santipamma alcuni giorni dopo il fatto... e anche se la storia mi fosse stata raccontata dai più grandi interpreti paesani, non potevo tralasciare di riascoltarla dall'attore principale.
Era seduto in una delle panchine della piazzetta antistante la chiesa di San Giuseppe, vicino alla fontanella che dava acqua fresca anche ad agosto, non fosse mai che il mio amico si trovasse li per godere del puro liquido, ma per riposarsi e per permettere alla sua amica, la scecca, di dissetarsi e allo scopo aveva riempito un bel secchio di acqua che arrivava direttamente dai monti Trigona.
Mi sedetti accanto in modo da poter carezzare l'animale e non perdere nessun espressione del viso del sommo filosofo.
-E chi cumminasti? Tuttu u paisi ni parra!
- A cuppa fù di Turi Pisciasaccu. U sapisti ca' misi fa muriu du fitusu di Cicciu Nasca?
Mancu u parrinu sapeva chi au ddiri pi l'animazza so. E di quannu u vurricarunu ci furunu tanti che dissuru di sentiri e viriri: vuci, lamenti e focu ca niscieunu 'nda so tomba.
Cicciu Nasca era un usuraio che aveva sulla coscienza ben due famiglie in cui in capofamiglia si era suicidato per colpa sua, al suo funerale furono pagate le persone che vennero da fuori paese per fare un po' di folla poichè solo la famiglia della sorella, a cui andava tutta l'eredità di questa anima nera sarebbe stata presente e non per affetto ma per convenienza.
- E chi c'entra Cicciu Nasca e Turi Pisciasaccu?
- Turi promittiu ducentumilaliri a cu' passava 'na notti sulu ndo capusantu vicinu a tomba di ndu fitusu.
- Iu ci dissi ca si mi dava dui buttighi di vinu prima ci stavu da sira sinu a matina, du pirucchiusu mi desi na buttigghia sulu, tu u sai ca sino a quannu c'è di viviri iu non dommu.
Ma na buttigghia finiu prestu e mi calau u sonno...
In parole latine.. avendo ricevuto una sola bottiglia e avendola finita velocemente si era stesi vicino alla tomba dell'usuraio e muovendosi nel sonno era finito dentro a una fossa che ra stata appena scavata in attesa del suo ospite.
L'asina si era diretta dietro a un grande monumento dove cresceva rigogliosa non so quale erba succulenta..
La mattina come suo solito la za' Mara Occhi'stotti si apprestava a rendere omaggio al marito defunto e passando vicino al nostro bello addormentato si prese quai un infarto a sentire il raglio dell'asina e un essere sporco di terra sorgere dal suolo che dalla sua prospettiva doveva sembrargli uscire dalla tomba di Cicciu Nasca.
Scappò urlando sino alla caserma dei vigili Urbani, facendo accorrere le forze dell'ordine e provocando l'ennesimo arresto per ubriachezza molesta al nostro eroe.

giovedì 15 aprile 2010

Il gatto morto


Quel pomeriggio avevo appuntamento con il mio amico Giovanni per la classica partita a scacchi e le quattro chiacchiere rituali.
Mia madre mi aveva chiesto se passavo da za' Filippa non ricordo più per cosa, che abitava pochi metri dopo il tugurio del mio carissimo amico Santipamma. Non pensavo di trovarlo in quel caldo primo pomeriggio di Giugno e vedendo invece l'asina imbardata e il suo padrone davanti al loro dormitorio mi portò ad accelerare il passo per non farmelo sfuggire.
Era stranamente sobrio ed eccezionalmente lustro e pulito, anche l'asina era strigliata e con delle bellissime vettuli di cuoio con borchie di bronzo dorate.
- Baciamu li mani! unni iemu innu accussi lustru? (dove siamo andando così lustro)
- Binidittu! Stamu iennu a fari n'insiviziu pa' Signura Mara, na cosa dulurusa e di rispunsabilità!
- E chi ci succiriu (e cosa è successo) a za' Mara?
- Ci mossi u iattu! C'era tantu affeziunata e vole ca u vurocu cu tutti l'unuri (che lo seppellisca con tutti gli onori), e pi stu siviziu mi runa centumilaliri, mi fici pristari i vettuli da don Pippinu manufitusa (don Peppino mano sporca).
- Mi spiaci per il gatto e per a za' Mara, ma sugnu cuntentu ca ti venunu centumilaliri, e non ti biviri tutti n'davota! (non berteli tutti insieme)
- A pi cu mi pighii ... i fazzu fruttari sti soddi, stavota non mi bivu, mi iocu o lottu accussi mi fazzu riccu! (per chi mi prendi? li farò fruttare non me li bevo, li gioco a lotto, così divento ricco!)
-E allura dammi i numiri macari a mia, accussi arricchisciu macari iu!
E carezzando le cara asina mi allontanai salutandolo con la mano.

Passarono due giorni e due vittorie, due patte e una sconfitta, quando rincontrai l'asina e il suo padrone.
Era seduto su una panchina in piazza, sotto l'unico albero che riusciva a dare ombra a lui e alla bestia.
Dopo i saluti rituali mi raccontò la sua ventura di becchino di gatti.
Andato a prendere la salma dalla za' Mara e postala avvolta in una federa dentro le vettole, aveva avuto l'ordine di seppellirla sotto l'albero di piretti (Citrus limonimedica) che si trovava nel "lotta"(lotto di terreno) lungo la via per Viscalori (frazione di Viagrande) di proprietà della za' Mara.
Sfortuna volle che lungo la strada, Santipamma, incontrasse proprio vicino alla putia (bottega che vende vino e cibo) un conoscente che gli offrisse un bicchiere di vino.
Dal bicchiere si passa alla bottiglia, dalla bottiglia alle bottiglie....
Per farla breve il nostro filosofo si ritrovò l'indomani all'alba sotto il monumento dei caduti con accanto l'asina che lo vegliava e... sorpresa senza vettuli.
Gli avevano rubato le bisacce con tutto il gatto morto.
Attimi ti sconforto, ma poi l'ingegno prevale.
Sale sull'asina e via verso Viagrande...

- E che centra Viagrande?- Chiesi.
- e Varanni avevu vistu vicinu a chiesa di Santu Mauru nu iattu precisu sputatu a chiddu da za'Mara.

-Arrubbasti u iattu?
- U pighiai, u lavai, fiteva chiu da testa da sciecca, (lo presi, lo lavai, puzzava più della testa dell'asina) ma non sulu ... tunnannu truvai l'appuntatu Saruzzu ca aveva acchiappatu n'fitusu di catanisi ca m'aveva rubbatu i vettuli; ma u iattu non c'era chiu, cu'sapi unni u jttau.
- E chi facisti?..
- Ii nda za' Mara e ci rissi, ca'spittai ca si faceva scuru pi vuricari a povira bestia, scavai na fossa e quanno i pi pigghiari u iattu mottu, u sinti cauru e ci sinti u cori vattiri (battere il cuore) e pi arianimallu prima ci fici a rispirazioni e poi puncennu na vina da sciecca (pungendo una vena dell'asina) ci desi u so sangu (gli detti il sangue) e ci musrai (e gli mostrai) u iattu vivu, chidda oramai è menza orva (mezza orba), pa cuntintizza mi desi ducentumilaliri. Ora ci iucamu o lottu e poi aspittamu ca mori u iattu (ce li giochiamo al lotto e poi aspetto che muoia di nuovo il gatto).

martedì 16 febbraio 2010

I Curiani


Oggi andando in ufficio odoravo l'aria di Torino, era ancora buio e il gelo aveva coperto i vetri delle macchine obbligando a dar mano di raschietto.
Ma torniamo all'aria una puzza di bruciato di non ben inedificabili sostanze, un miscuglio nauseabondo e meno male che ieri aveva anche nevicato.
Il mio cervello mi riportò ai profumi che sentivo in questo periodo quando ero ragazzo.
Gli odori brutti erano quelli dello stallatico che veniva sparso nei campi.
Mentre fantastici erano gli odori che le potature di ulivi e delle viti diffondevano nell'aria.
Ma anche l'odore della terra smossa che dalle mie parti avveniva ancora a forza di braccia con attrezzi che risalivano a epoche passate, zappe e "zappuni"; era questo lo strumento principe del bracciante a giornata.
Questi venivano chiamati da mio Nonno e da mio Padre "Curiani", non so bene da dove deriva questo termine, forse dal fatto che tanti latifondi nelle nostre zone erano in mano alla chiesa e quindi alle Curie, ma non ho trovato riscontri su questa ipotesi.
Il Curiano nella mia immaginazione era un fenotipo ben preciso, scarsa intelligenza, forza sproporzionata ma indolenza atavica.
Quasi un deriva parallela dell'evoluzione, la sua rozzezza era anche nel cibo di cui si nutriva, cipolle crude pane e vino, e a questo bisognava fare molta attenzione poiché non riusciva a trattenersi e se il datore di lavoro faceva l'errore di metterne a disposizione troppo, ti ritrovavi con la mano d'opera ubriaca e il lavoro non finito a fine giornata.
Mi ricordo quando uno di essi un po' brillo, mentre scalzo portava a compimento la sua mansione di preparare la vigna per l'estate con la così detta "rifunnuta", scambiò il suo pollicione che usciva dal monticello di terra, per la testa di una vipera e si tronco l'alluce con un colpo di zappuni. O quanto spinto da un bisogno corporale dopo aver mischiato uva e fichi d'india durante la vendemmia non riuscì ad appartarsi in tempo e lasciò una pista di un color marroncino chiaro lungo il filari di vite.
Era uso dai proprietari della vigna far mangiare i fichi d'india prima di iniziare la vendemmia, questo per evitare che poi i braccianti si servissero dell'uva ben più preziosa, infatti la combinazione dei due frutti dà un risultato, diciamo, dirompente.
Ma avvolte in queste famiglie venivano fuori dei fiori inattesi.
Uno di questi colpì così tanto le fantasie di un mio fraterno amico che fu veramente dura dissuaderlo dallo dichiararsi in casa del così detto giglio.
Ma questa è una storia che mi riprometto di raccontare un'altra volta.

giovedì 19 novembre 2009

Lontano, lontano nel tempo




In quel tempo esistevano ancora le rasule che permettevano di raggiungere i paesi limitrofi.
Se a volte, per l'incuria dei proprietari terrieri, che avevano l'obbligo di tenerle pulite da rovi ed erbacce, il percorrerle era difficoltoso, venivi ripagato dalla pace e dai profumi della campagna.
Era un pomeriggio inoltrato di Maggio e percorrendo la rasula che dalla frazione di Trimisteri portava al mio paese, alla sommità della salita dove la stradina si trasformava in una carettera con gli antichi blocchi di pietra lavica paralleli per facilitare lo scorrere delle ruote, vidi l'incedere dell'asina di Santipamma con il suo caro amico in groppa.
La cosa era abbastanza curiosa data l'ora e la calura che portava il nostro acerrimo nemico dell'acqua a soffrire la sete.
Accelerai il passo, in breve le mosche che anticipavano l'asina mi raggiunsero e ben presto la nuvola di quelle che la seguivano mi avvolse.
-SABBINIRICA!
Salutai portando il palmo aperto leggermente in alto.
L'asina si avvicino per ricevere carezza e zolletta di rito, mentre il padrone alzata la coppula metteva a fuoco e riconosciutomi, emise la frase di rito:
-Tuttu santu e binirittu!
Chiusi velocemente i convenevoli, zucchero compreso.
Chiesi dove andasse con quel caldo.
E Lui:
- nda putia a Pirara!
Stupito dalla risposta:
É finito u vinu nda Za' Mara? ni mancunu putii o paisi!
E Lui sconsolato:
-'U dutturi mu dissi!
E io sempre più stupito:
- E chi 'u dutturi cunsighia u vunu da Pirara?
Leggero cenno di diniego in sintonia con lo scrollo della testa dell'asina
- No! 'u dutturi mi dissi. " e mi raccumanu! 'U vinu!! Luntanu". Ma chiù luntanu da' Pirara a Sciecca nun'va!
E Sconsolato, incitando la povera bestia ricominciò il pellegrinaggio.

giovedì 5 novembre 2009

Li surci




Li surci
(G. Meli)

Un surciteddu di testa sbintata

avia pigghiatu la via di l`acitu (1)

e facìa `na vita scialacquata

cu l`amiciuna di lu so partitu.

Lu ziu circau tirarlu a bona strata,

ma zappau all`acqua pirchì era attrivítu (2)

e di chiù la saimi (3) avia liccata

di taverni e di zàgati (4) peritu.

Finalmenti Mucidda (5) fici luca (6),

iddu grida: Ziu!-Ziu! cu dogghia interna;

sò ziu pri lu rammaricu si suca;

poi dici: "Lu to casu mi costerna,

ma ora mi cerchi? chiaccu (7) chi t`affuca!

Scutta pi quannu isti a la taverna!"




(1) cominciare a guastarsi, specie per qualcuno che peggiora il suo modo di comportarsi
(2) attrivítu=coraggioso, audace ma qua è più da intendersi sfrontato
(3) saimi=sugna
(4) zàgati=bettole
(5) Mucidda=Gatta
(6) faci luca = tese un agguato
(7) chiaccu=forca

martedì 18 agosto 2009

A pleuriti!




Non era facile parlare con Santipamma.
Non perchè fosse un tipo scorbutico, anzi, se fosse stato per lui avrebbe parlato con te tutto il giorno, anche se, non ascoltava ciò che tu dicevi. Dovevi ripetere le cose due o tre volte, prima per attirare la sua attenzione poi per far capire bene la domanda.
No, lui era un affabile parlatore. Quando non era ubriaco, cosa che in una settimana poteva capitare due o tre ore.
La maggior parte del tempo la passava in uno stato di ebrezza minore, poi al pomeriggio, vuoi la sete della calura in estate, vuoi i rigori dell'inverno, ci andava giù pesante e si riprendeva, diciamo così, l'indomani alle 10 - 11 se nessuno lo disturbava da dove era svenuto la notte prima.
Ma nello stato di ebrezza minore il suo affetto per la sciecca era totale anche perchè la povera bestia era anche lei tifosa del fiasco, avendolo provato più di una volta; era una curiosa-pena vedere il muso dell'asina sfiorare la spalla del padrone quando lo vedeva alzare il fiasco, come a chiedere un sorso anche per lei, sorso che ogni tanto il buon padrone-amico elargiva.
Un giorno al giardinetto lo trovai seduto su la panchina e l'asina legata al lampione li vicino, era sobrio e pensieroso. Stranamente mi riconobbe, segno dell'estrema lucidità, e mi invitò a sedere.
Mi chiese a bruciapelo cosa fosse la pleurite.
Era gennaio inoltrato e il suo naso rosso gocciolava, era sempre stato così e non ci facevi più caso, si asciugava nella manica della giacca una volta su tre, le altre due in un fazzoletto che era di una colore indefinibile e di una grandezza da sudario.
- Picchì u vo' sapiri?
Mi rispose subito non dovetti ripetere la domanda.
- U' Dutturi...
soffiata trombesca di nasca, asciugata di occhi.
.. mi voli ricuvirari, dici ca haiu a pleuriti. Come fazzu ca scecca? A'cu' a lassu?
Lo tranquillizzai dicendo che la potevamo portare nella stalla di mio nonno e che non si doveva preoccupare che sarebbe stata bene.
Questo lo rassicurò e si sentì un po' più sollevato.
- Ma sta malatia.. chi è?
Gli spiegai che era una malattia che poteva venire per la polmonite che aveva avuto già a inizio Dicembre e che è meglio curare subito e che un ricovero in ospedale con una buona alimentazione e, questo lo dissi nella mia mente, lontano dal vino e una buona lavata, ti farò solo del bene.
- Fozza, susiti puttamu a scecca n'da stanna e poi ti potto n'do spitali.
Lasciammo l'asina nelle mani esperte di mio nonno che cominciò a strigliare la bestia prima di metterla nella stalla con il mulo.
In macchina il poveruomo mi chiese ancora della malattia, e io cominciai a spiegargli che in parole povere si forma dell'acqua in questo tessuto e che è meglio curarsi subito.
Detto questo un grido mostruoso si levò.
-Acqua, ma quali acqua? sunu 30 anni ca non toccu acqua! Sarà statu du curnutu do vinaru ca ci metti l'acqua n'do vinu, Curnutu mi fici ammalari.
Penai non poco per calmarlo.

venerdì 31 luglio 2009

A quattara




A quattara

8 quattari fannu n'utri, 2 utri na sarma i’mustu, per ogni samma prodotta si pagava al proprietario del palmento.
Nel piccolo paese di mio nonno esistevano due palmenti uno di proprietà do Zu ' Naschitta uomo di rispetto e quindi inviso da mio nonno, l'altro di proprietà della canonica e quindi gestito dal parroco di allora Don Prizzinu, grande fascista, strozzino e ladro, la scelta era impossibile o uscire dal paese con costi esorbitanti o subire.

Mio nonno sapeva come ragionava il parroco che: o di faceva aumentare il mosto di notte con l'acqua, o ti truffava con la quattara dal fondo rialzato che così conteneva meno dei 17,2 litri; tutti sapevano ma per paura di ritorsione, dai fascisti da un lato o dei mafiosi dall'altro, tutta la povera gente subiva.

Mio nonno alla vendemmia prendeva l'asina, il fucile il cane le vettole piene e si piazzava per tutto il tempo nel palmento aspettava che arrivasse la racina, che venisse pigiata e la notte messa la soma dell’asina a mo di cuscino il fucile accanto si apprestava a dormire con un solo occhio.

Già le altre nottate le aveva passate nella vigna sempre con il cagnetto, l’asino e il fucile.
Durante la vendemmia erano i figli, mio padre e mio zio, a controllare i lavori della vendemmia.
All’età di sette anni chiesi di stare con il nonno per la vendemmia, pensavo che fosse una cosa triste stare da soli la notte e che se ci fossi stato io potesse almeno riposare.
Il nonno all’inizio non sembrò felicissimo dell’idea di avermi tra i piedi in un momento come quello ma i tempi erano cambiati.
Zu’ Naschitta non c’era più da prima che io nascessi, sparato di notte mentre tornava a casa dopo che era stato chissà dove.
Don Prizzinu ufficialmente era ora Democristiano e non faceva più lo strozzino, poi durante le elezioni passava casa per casa a ricordare che quando c’era Lui, si viveva con le porte aperte. Tranne la sua che era sempre chiusa a chi aveva bisogna , mormorava mio nonno e si rimetteva in bocca un filo d’erba.
Erano i primi anni ’60 e quella notte passata a parlare con quell’amorale di mio nonno, che come diceva il prete non rispettava i Santi e le istituzioni, mi è rimasta nel DNA.

La mattina quando vennero per portare via il mosto con le Api, il prete era presente e carezzandomi la testa mi chiese presto farai la prima comunione e poi la cresima sarai certamente contento di fare i sacramenti.
Mio nonno inarcò un sopracciglio e io risposi: - si mi dispiace solo che non li farò insieme a Pippu u niuru, ca e chiù ranni i mia di’nannu .
Il Prete divenne rosso e andò via incollerito e mormorando astimi nei nostri confronti.
Mio nonno sorrise leggermente e mi mise la mano tra i capelli.

Pippu u niuru, Giuseppe soprannominato lo scuro era ufficialmente il figlio della perpetua e del sacrestano, ma il sacrestano non poteva avere figli da quando una pallottola lo aveva evirato e castrato, e Pippo era sputato a Don Prizzinu.

martedì 9 giugno 2009

Pisòli



I pisòli da chiesa

Quello era il luogo in cui ci si incontrava ogni pomeriggio e dopo le scorribande nel paese o nei d'intorni e si finiva sempre per ritornarci.
Sono nella piazza ancora adesso ma nessuno più ci si siede, nessuno più gioca la sera d'estate nella piazza grande del paese, le macchine sfrecciano e le poche persone vanno nei bar per un caffè veloce, più nessuno sta seduto sui pisòli.
Quelle sere d'estate erano l'inizio e la fine dei nostri itinerari si ci riuniva li alla spicciolata si decideva se andare a "mangiare nda'putia da Za' Mara a 'ngrasciata" e poi al cinema nel paese vicino. Quanto li odiavamo quei pisòli allora, erano la nostra isola e la nostra prigione, sapevamo che il mondo era al di fuori di quel luogo, irraggiungibile e desiderato, erano la noia della gioventù, ma che sapore romantico assumono dopo trent'anni.
Già una volta, dieci anni fa, incontrandomi con un amico a Milano, ricordando quei tempi, mi è venuto spontaneo dirgli: - ma ci pensi quando stavamo seduti nei pisòli? Chi l'avrebbe detto che ci saremmo rivisti dopo vent'anni a "Milanu", a "Milanuu"?
L'altro giorno sono stato contattato da paesano su Facebook e la frase inviatemi era:
-Ma ti ricordi di quando passavamo i pomeriggi nei pisòli?
Sono proprio vecchio se la memoria di quei tempi mi fa scorrere una lacrima.

martedì 14 aprile 2009

Morale e moralismo





Avevo 12 anni, anno 1970 circa.
Un venerdì sera a pranzo mio padre ci disse che aveva pensato di piantare in tutto il lato di nord-est della vigna degli alberi di ulivo.
Io non avevo la ben che minima idea di cosa ciò volesse dire.
La domenica mattina andammo nella vigna e mio padre mi descrisse le varie operazioni.
Primo
Pulire bene tutto il lato interessato togliendo erbe frasche eventuali rovi arbusti ecc. ecc.
Lavorammo per tutta la giornata alla fine la zona era stata ripulita anche dai fichi d’india, quella era una zona della vigna ancora a “sciara
Secondo
La domenica dopo cominciamo a segnare i punti per piantare gli ulivi, teoricamente doveva essere uno ogni 6 metri ma era meglio mettere le piante dove il terreno dava la miglior indicazione di riuscita, è la terra che ti dice cosa fare non la tua voglia come vorresti che le cose fossero, sentire capire interpretare e realizzare di conseguenza, allo stesso modo di come mio nonno mi spiegò su come si potava la vite, non come vuoi tu ma come ti dice la pianta piegando i suoi rami torcendosi su se stessa ti sta indicando che vuole crescere così, aiutala e lei sarà contenta e ti premierà con grappoli sani e belli, se fai come vuoi tu forse riuscirai ad avere più grappoli per un po’ ma la pianta soffrirà e il risultato non sarà così buono e mi citava un proverbio “Ogni cosa si pigghia pu so versu” e così invece di 26 alberi ne segnammo solo 21, cominciò il quel giorno stesso lo scavo delle buche, per ognuna si lavorò per almeno un paio di ore e ci vollero altre quattro domeniche per completare lo scavo,
Terzo
Quel sabato era festa e andammo con mio zio al vivaio per scegliere le piante, anche lì era la sensazione che ti dava la pianta e non tanto le chiacchiere del venditore.
La domenica la passammo impiantando gli alberelli nelle fosse, si sceglieva l’aspetto dell’albero della sua radice con il posto e la conformazione del terreno in quel determinato punto, la natura già dava i primi segnali di risveglio e gli odori di terra si mischiavano con quelli delle erbe. Alla fine tutte gli alberi furono messi a dimora.
Quarto
Al che mio padre si piazzò a una certa distanza e con il sole che tramontava alle spalle si fermo a rimirare il lavoro fatto, io raccolsi gli attrezzi le sistemai in macchina e tornai accanto a lui.
Quell’immagine di quel confine della vigna mi piacerebbe poterlo trasmettere a mia figlia.
Quando spegnendo la sigaretta a metà stringendola tra pollice e indice e mettendola in tasca per fumarla dopo si girò per tornare a casa gli chiesi:
- quann’è ca cughiemu alivi?
(quando raccoglieremo le olive?)

Si girò stupito:
- Ca si va bonu, fra cinc’anni quacchi chilu pi salari.
(se va bene, fra 5 anni un chilo da salare)

venerdì 20 marzo 2009

'A Coppula




I mie ricordi di infanzia mi portano a quelle giornate di metà gennaio che capitano in Sicilia.
Sono giorni che arrivano dopo il maltempo, luminosissime anche se fredde la luce sempra che ti arriva da tutte le direzioni, i colori sono precisi, ordinati e puri, l'aria è pulitissima e gli odori sono netti, senza sbavature e sovrapposizioni, anche i cattivi odori e tra quelli mi ricordo quello del poeta dell'Etna.
Si faceva chiamare così un omino del mio paese che assillava tutti i conoscenti con le sue "poesie" e il suo puzzo di vino di terz'ordine, dove riuscisse a trovare un vino così cattivo resta un mistero poiché la zona del mio paese nativo è baciata di vitigni e vigne incapaci anche volendo di produrre vino cattivo.
La mia e penso anche quella dei miei amici, memoria non ha nessun ricordo dei tremendi versi, sarà stata auto sanità mentale? E invece mi ricordo la coppola, per chi non sa cosa sia.
La coppola è l'estensione del linguaggio siciliano, si , non è un errore per tutto il resto del mondo la coppola è un copricapo ma per un siciliano è un mezzo di comunicazione.
Essa esprime il tuo stato d'animo rafforza le tue espressioni un esempio?
La coppola portata alzata sulla fronte esprime perplessità e dubbio, calzatta a sinistra estro e spensieratezza, a destra malandrineria e sfida, calata sugli occhi scontro e battaglia, veniva infatti così portata durante i duelli con il coltello di giorno per non essere distratti e abbagliati dal sole.
ma soprattutto un buon catanese si ricorda della così detta "Coppula do’ zuVicenzu" di cui vi invito ad non indagare e che io associo alla parte superiore di certi nostri politici.

giovedì 5 marzo 2009

Val Calanna


Era il 1979, allora esisteva ancora una valle sull’Etna, per gli abitanti di Zafferana Etnea, quel nome dice ancora tanto.
Sotto il Monte Calanna esisteva la valle omonima, fertilissima con sorgive d’acqua, quasi una beffa per un paese che ha avuto l’acqua razionata per decenni,
Lasciai la vecchia R6 nel piazzale da dove iniziava il sentiero che tra muri a secco e ginestre fiorite saliva alla valle.
Lo zaino militare allacciato e il tascapane a tracollo in cui era avvolto in un sacco di iuta “u bummulu” ancora vuoto ma che già mi sentivo il sapore dell’acqua che da li a una mezzora avrei bevuto fuoruscita dal forellino tenuto chiuso da una frasca di ferula, quanti sapori si perdono? E questo è uno di quelli, come fai a descrivere il sapore dell’acqua di sorgiva che è stata dentro u bummulu, come il sapore del coniglio selvatico che speravo di mangiare quella sera, cotto alla brace lentamente per un paio di ore con braci di castagno e frasche secche di macchia odorosissima, certo un po’ di vino ci sarebbe stato da Dio ma quella era una vacanza per lo spirito non per il corpo.
Arrivato all’ultima salita rallentai il passo per godermi la vista improvvisa un leggero vento mi portava i profumi della valle e appena misi il piede nel costone un silenzio assordante mi avvolse, durò pochissimo ma come le cose improvvise ti colpiscono dentro e ti restano per sempre, prima il canto cauto di un pettirosso, seguito dal fresco e gioioso suono dell’usignolo e poi tutti gli altri in un concerto che fa da sottofondo alla vera vita.
Oltrepassai i frutteti e mi diressi a Nord verso la bolla sorgiva li c’era una “casedda” diroccata che utilizzavo come accampamento.
Poste le poche cose preparai la trappola per il coniglio, la piazzai ad alcuni centinai di metri tra i rovi, lì dove si innalzava il muro della colata lavica, di quale anno?
Poi andai a riempire u bummulu e seduto su uno sgabello di ferula bevvi dal filo d’acqua che da esso fuoriusciva, vera acqua della vita.
Raccolsi la legna e le frasche sia per la notte che per la cottura,era un’azione di buon augurio altre volte avevo passato la serata con un po’ di pane e qualche frutto preso dagli alberi do Zu’Stranu.
Apri lo zaino e tirai fuori il sacco a pelo lo stesi e con la con la coperta messa su mi addormentai.
Un canto di un cardellino vicino quasi all’orecchio mi svegliò, mi stiracchiai, un sorso d’acqua e mi avviai verso la trappola, non c’è bisogno di vedere per sapere se il tuo trucco abbia avuto successo lo senti ancor prima di vedere.
Nella trappola c’era un coniglio, un saittuni grigio che cercava in tutti i modi di liberarsi, lo presi per le orecchie e poi per i piedi lo uccisi così come avevo imparato dal nonno, un colpo secco dietro la nuca, lo pulì scuoiandolo utilizzando il fil di ferro un ramo d’albero e il mio coltello a serramanico.
Queste azioni venivano fatte non senza un ringraziamento e un rispetto per l’animale morto, mio nonno mi spiego come si dovesse omaggiare l’essere che con la sua morte ci dava il cibo, non parole o azioni ma stato d’animo e silenzio, solo il silenzio è la vera musica di rispetto per la morte.

giovedì 4 dicembre 2008

Santipamma e l'asina



Nel mio paese natio, quando ero ancora un ragazzetto che girava con i calzoncini corti, (una volta si usavano, e non sorridete con sufficienza) viveva un mendicante, filosofo ma soprattutto alcolizzato.
Tutti lo chiamavano Santipamma, possedeva un'asina, da questo il ritorno dei pensieri a quell'epoca lontana; il presepe, l'asino, l'asina di Santipamma.
Più di un'asina, anzi un cane di compagnia, un'amica fidata per il vecchio ubriacone; era lei che lo riportava a casa quando era senza coscienza per colpa del vino scroccato o guadagnato con qualche lavoretto, era lei che con il suo calore aiutava il suo amico a superare le notti più fredde.
Una volta il Santipamma ancora un po' lucido, ma già un po' malfermo sulle gambe, prese coscienza di questa amicizia fraterna e volle rendere l'amica partecipe della sua gioia, mise in bocca alla bestia il fiasco di vino, il povero animale data la giornata calda avendo sete ingoio in un sol sorso tutto il contenuto.
Il padrone contento nel vedere come la sua asina apprezzasse il vino prese un altro fiasco e giù nella gola della povera asina.
Il secondo fiasco fece effetto e l’asina cominciò a ragliare con tono da baritono, e appena fece il primo passo, forse impaurita dal girare degli oggetti attorno a se, cominciò a correre scompostamente e il padrone dietro gridando per tutto il paese:
-Ah, sciecca! Ah, sciecca.. (L'asina, L'asina)
Furono ritrovati tutte e due addormentati sulla strada del paese vicino a notte fonda, fraternamente abbracciati.