SOLO QUELLI CHE SONO COSI' FOLLI DA PENSARE DI CAMBIARE IL MONDO, LO CAMBIANO DAVVERO (A.Einstein)

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venerdì 5 maggio 2023

L'ambra del Simeto - La Simetite



Simetite

L'ambra del Simeto, nota anche come Simetite, è un tesoro della Sicilia che spesso viene sottovalutato e poco conosciuto, nonostante la sua bellezza e la sua storia millenaria.

Questa preziosa resina fossile, che si presenta sotto forma di gocce, pezzi irregolari o sferiche, è stata estratta per secoli in diverse zone della Sicilia, ma è particolarmente legata alla valle del Simeto, da cui prende il nome.

La Simetite è una resina fossile che si è formata circa 50 milioni di anni fa, a seguito di una serie di processi geologici che hanno coinvolto piante di conifere. La resina fu sepolta sotto strati di sedimenti, subendo un processo di fossilizzazione che ha dato origine all'ambra.

L'ambra del Simeto si presenta in diverse sfumature di colore, dal giallo al marrone scuro, e può contenere inclusioni di piccoli insetti, foglie, ramoscelli e altri materiali organici. Grazie alle sue caratteristiche, l'ambra del Simeto è molto apprezzata in gioielleria e nella produzione di oggetti d'arte e di antiquariato.

Inoltre, l'ambra del Simeto è stata usata per secoli nella medicina tradizionale come rimedio contro le infiammazioni, i dolori articolari e le malattie respiratorie. Secondo alcune teorie, l'ambra sarebbe in grado di liberare ioni negativi, che avrebbero un effetto benefico sull'organismo umano. Tuttavia, va sottolineato che l'efficacia dell'ambra come rimedio medico non è stata scientificamente dimostrata.

Inoltre, alcuni rimedi omeopatici contengono estratti di ambra, utilizzati per alleviare i sintomi come ansia, stress e insonnia. Anche in questo caso, va sottolineato che l'efficacia dell'ambra come rimedio omeopatico non è stata dimostrata scientificamente.

In generale, è importante ricordare che l'utilizzo di rimedi naturali deve essere sempre valutato con attenzione e sotto il controllo di un medico. Inoltre, l'ambra non può sostituire una terapia medica appropriata.

In conclusione, l'ambra del Simeto è un tesoro della Sicilia che merita di essere conosciuto e valorizzato, non solo per la sua bellezza e la sua storia millenaria, ma anche per le sue possibili applicazioni artistiche e industriali. Tuttavia, va sottolineato che l'efficacia dell'ambra come rimedio medico non è stata scientificamente dimostrata e che l'utilizzo di rimedi naturali deve sempre essere valutato sotto il controllo di un medico.

martedì 14 marzo 2023

Il LIOTRU: simbolo della città di Catania

Il LIOTRU, o "u Liotru" in dialetto catanese, è una statua in pietra lavica rappresentante un elefante che si trova nel centro storico della città di Catania, in Sicilia. Questa imponente figura, alta oltre 3 metri e con una lunghezza di circa 4 metri, è considerata il simbolo della città e rappresenta uno dei monumenti più importanti e rappresentativi della cultura catanese.

La storia del LIOTRU risale al periodo della dominazione romana, quando la città di Catania era un importante centro di commercio. Durante questa epoca, gli elefanti venivano utilizzati come animali da trasporto per i prodotti commerciali e militari, e la figura dell'elefante divenne simbolo della città. La fontana con la statua, invece, risale al XVII secolo, quando fu realizzata su commissione del Senato di Catania per celebrare la fine di una lunga epidemia di peste.



Il LIOTRU è stato oggetto di molte leggende e superstizioni nel corso dei secoli. Ad esempio, si dice che se si tocca la zampa destra dell'elefante si ha fortuna, mentre se si tocca la zampa sinistra si attira la sfortuna. Inoltre, si crede che la statua abbia il potere di proteggere la città da calamità naturali come terremoti ed eruzioni vulcaniche.


Nonostante il passare dei secoli, il LIOTRU continua ad essere un importante simbolo della città di Catania e un punto di riferimento per i suoi abitanti. La statua si trova al centro della piazza del Duomo, circondata da importanti monumenti come la Cattedrale di Sant'Agata e il Palazzo degli Elefanti, sede del Municipio di Catania. La piazza è un luogo di incontro e di ritrovo per i catanesi, che si riuniscono qui per festeggiare le ricorrenze religiose e le festività locali.

Inoltre, il LIOTRU è diventato un'importante attrazione turistica, attirando ogni anno migliaia di visitatori da tutto il mondo. La statua rappresenta un esempio del ricco patrimonio storico e culturale della città di Catania, e un simbolo della sua identità e della sua forza.

In conclusione, il LIOTRU rappresenta un importante simbolo della città di Catania, un punto di riferimento per i suoi abitanti e un'attrazione turistica di rilievo. Questa statua in pietra lavica rappresenta la storia e la cultura di una città antica e affascinante, e la sua presenza al centro della città testimonia la sua importanza e il suo ruolo nella storia dell'isola.

lunedì 27 febbraio 2023

Odore d'origano



Gli odori per me sono come i colori e le immagini.

Cominciano a infiltrarsi nella mia coscienza e dirottano il pensiero su eventi e ricordi, su sogni passati, su una vita che ora sempre idilliaca.

Questa mattina il gatto si è intrufolato nel ripostiglio dove tengo le scorte alimentari e per convincerlo ad uscire mi sono chinato sino a che il mio naso è venuto a contatto con il sacchetto dell’origano.

È stato come un pugno nel cervello, prima una macchia verde scura poi i contorni cominciano ad emergere e il ricordo di quella mattina a Piraino mentre a piedi discendevano lungo i tornati che portavano a Torre delle Ciavole. Francamente non so se il nome fa riferimento ai corvi o al pesce che si potrebbe pescare in quello specchio di mare.

Ma so che lo spettacolo allora era sublime, sublime come il viso della francesina che accompagnavo.
E l’origano era la pianta che mi ritrovai sotto il naso mentre potete benissimo immaginare cosa stessi facendo, ecco perché per me quell’odore è come una fanfara dei bersaglieri,  meglio di qualsiasi stimolate industriale.

Ma torniamo alla Torre delle Ciavole.
Su uno Sperone roccioso sul mare edificata con grossi blocchi di pietra su tre rialzi era la difesa di quel tratto di costa nel XVI secolo.

Bastavano quattro soldati a sorvegliare e con l’ausilio della campana posta accanto alla finestra del lato sud, dare l’allarme se arrivavano pirati o altri pericoli. E proprio un guardiano scatenò l’amore della principessa Maria La Bella di nome e di fatto.

Ma come tutti gli amori impossibili la tragedia incombe.

La principessa stava al castello dei Lancia e il giovane arrivava in barca sino al caricatoio  e come nelle tragedie shakespeariane si arrampicava sino al balcone. Comunicavano anche di giorno usando gli specchi, ma tutto questo non poteva passare inosservato e il fratello della ragazza senti questo amore come un affronto al suo onore e preso di rabbia architetto un agguato nei pressi dello scoglio  vicino a Brolo detto appunto “del pianto” (ploratu). Uccise il guardiano e si liberò del corpo gettandolo con un sacco nel fondo del mare.

Ancora oggi la Maria la Bella appare ai pescatori del luogo e augura loro fortuna alla pesca e li allerta in caso di cattivo tempo.

Questa storia raccontai alla bella francesina mettendogli nell’orecchio sinistro in rametto di origano fiorito.



mercoledì 11 aprile 2012

Colori di Catania





Leggendo il post che ricorda il terremoto avvenuta a L'Aquila, mi è venuto naturale chiedermi:
- Ma quali sono i colori della mia città, Catania?
L'immagine che mi sorge è quello della luce, Luce che si riflette nelle "basule" di pietra lavica di via Etnea, una luce bianca purissima, come quella che le prediche sentite in chiesa attribuivano al paradiso.
Luce che si specchia sulla superficie nera delle strade, che crea giochi d'ombra sulle facciate barocche dei palazzi signorili, e l'azzurro intenso del cielo che non ha differenza con la tonalità del mare visto dalla scogliera ancora nera di pietra.
Il bianco che cerca di di penetrare il nero su cui sorgono le case, case che si scagliano nel cielo come un ritorno all'origine come un grido, grido che si fa acuto per le sofferenze e per la speranza persa.

Ecco per me  i colori di Catania solo il bianco, il nero e l'azzurro.

venerdì 20 gennaio 2012

Attia di l'ovu





Passavo d'avanti alla Putia di Donna Mara e una voce dal profondo buio mi chiamo.
Facile era attribuirgli la proprietà anche perchè l'asina era legata al tronco del minicuccu (bagolaro o Celtis australis L.) che era riuscito a farsi strada tra i blocchi di pietra lavica della sporca casetta che fungeva da putia.
Entrai e sedendomi salutai il mio amico Santipamma che era stranamente ancora sobrio e con il suo litro di vinaccio ancora quasi intonso e che veniva servito a 150 lire.
A Zà Mara fu prontissima a portarmi un bicchiere quasi pulito e ancora grondante d'acqua che certificava l'accurata igiene del posto. Aveva voglia di parlare e io di ascoltarlo.
- A sai a storia di "Attia di l'ovu"?
- Ho sentito l'esclamazione ma non so la storia.
Risposi.
E oggi voglio tradurvi questa storia che mi costò 300 lire, un bruciore di stomaco meno due bicchieri, causa del bruciore prima detto.
Don Caluriu era un Massaro del Principe M.
Un giorno vide Turriddu un ragazzo che lavorava alacremente e con impegno, lo chiamo e complimentandosi per la sua dedizione al lavoro gli regalo un uovo raccomandandosi di non dir niente ai suoi compagni.

Un uovo era una bene inimmaginabile per quei poveretti costretti a vivere un gradino più su delle bestie.
Don Caloriu fatto il suo giro di controllo era solito sedere sotto un secolare albero d'ulivo che dominava l'appezzamento di terreno.
Ogni tanto svegliandosi e notando i lavoranti che rallentavano il ritmo urlava:

-Attia di l'ovu!

E miracolosamente i suoi uomini riprendevano a lavorare come bestie qual erano ridotti.
Una mattina mentre era seduto sotto il solito ulivo arrivò un cavaliere che lo chiamò urgentemente al cospetto del principe.
Appena il Massaro fu lontano dalla vista dei lavoranti tutti alzarono la schiena e si fermarono.
Il più vecchio portandosi la mano sulla coppola disse:
- Sono il più anziano e quindi tocca a me dirigere il lavoro.
Ma a questa affermazione si creò subito una discussione.
Chi diceva che toccava a lui comandare perchè era da più tempo sotto le dipendenze, chi vantava lontane parentele con il Massaro e chi affermava che essendo l'unico che sapesse leggere aveva i requisiti giusti per comandare.
In un momento di toni meno accesi si sentì Turiddu dire:
-Sbagliate tutti tocca a me comandare!
- e perchè?
Chiesero tutti.
-Perchè io ho la stima del Massaro e infatti mi ha anche regalato un uovo!
- anche a me!
- anche a me! ...
e così scoprirono che erano tutti:
- Attia di l'ovu!
Tutti che per un favore ricevuto sacrificavano senza dolersi la loro vita.
Il detto resta nel DNA dei siciliani poichè sono sempre convinti di avere ricevuto chissà quale favore a farsi sottomettere dai loro politicanti, come dimostrano le percentuali plebiscitarie con cui eleggono certi individui.

giovedì 12 gennaio 2012

'U TISTAMENTU DI MÊ NANNAU

Pieter Bruegel il vecchio, L'asino a scuola, 1556.



'U TISTAMENTU DI MÊ NANNAU

Tri uri e 'n quartu prima ca muriu
  sintiti chi mi dissi mê nannau.
  Mi dissi: -Senti, niputeddu miu:
  biatu cu' a la scola studïau.

'Scuta a stu vecchiu c'avi spirienza
  e stampitillu na la carusanza;
  non è la strata, non è la dispenza
  ca ti pô dari anùri e maistranza.

Comu senz'acqua babbàni sú l'ervi,
  e senza pagghia lappùsi li sorvi,
  oggi, ca cchiù ci giùva e cchiù ci servi,
  senza ku studiu l'omini sû orvi.

Iu vi lu dicu a tutti: studïati,
  ca qualchi cosa ci l'àrrinisciti;
  forsi maestri non ci divintati,
  ma non ristati li scecchi ca siti. -

Chistu mi dissi, prima ca muriu,
  la bon'armuzza, sì, di mê nannau.
  Chistu iddu dissi, e chistu dicu iu:
  « Biatu cu' a la scola studïau ».


tratta da "Cunti e Canti di Sicilia" [4]
Mario Mendola e C.
Minestra Maritata 
Primu Piattu 

IMPRIMATUR
Catanae, die 30 Aprilis 1958
Can. N. Ciancio, Vic. Gen.

lunedì 23 maggio 2011

Amici



Giocavano a scacchi nel parco. Forse lo facevamo più per esibizione che per vero gusto del gioco.
Non che non ci fosse competizione, anzi era un punto d'orgoglio quello di sbaragliare l'avversario. Ma le partite, quelle toste, venivano fuori quando eravamo soli e senza testimoni, quando il silenzio durava anche un ora, quando i pezzi erano divenuti parte di noi stessi e sentivamo lo sforzo dell'altro per prevalere. Quando eravamo infossati su quelle poltrone marrone, che in estate portavano il fondo schiena ad una temperatura indescrivibile, quando il salone posto all'ultimo piano era per metà ricoperto da una nube di fumo e soprattutto quando il caso ci permetteva di assaporare qualche liquore o vino.
Fu la solitudine interiore che ci spinse a frequentarci e a riconoscerci come fratelli.
Ci piaceva discutere di tutto e su tutto, spingevamo le analisi delle nostre letture sino all'estremo delle nostre capacità intellettive.
Forse il tutto era anche causato dal fatto che non potevamo permetterci altri tipi di passatempi.
Le chiacchierate più lievi e divertenti erano quelle che riguardavano il sesso e per lo più avvenivano in compagnie più allargate. Già nell'essere in tre i toni divenivano diversi e se poi il gruppo era al completo, cosa che succedeva raramente, passavamo ad essere in quattro e le chiacchierate erano un balsamo per l'anima e ci facevano sentire partecipi del mondo.
Quanto tempo è passato da quel giorno, quanto spazio è stato percorso da quella panchina? Troppi anni e troppi giorni vissuti inutilmente, vissuti lontani perchè così credevo che dovesse essere la vita, ma forse è sopravvivenza e non vita questa scelta di lontananza.
Eppure non posso dire di essere infelice, sono contento della mia famiglia, non potrei concepire ora la mia esistenza senza mia figlia..ma!
Ma mi manca quell'amico e come se una parte di me fosse ancora legata a quella panchina di quel giorno nel parco.
Cosa ci ha resi così lontani?
E non è solo la lontananza dei chilometri è una lontananza di spiriti, di esistenze che potranno forse ricucirsi ma che hanno in qualche modo subito delle ferite, qualcosa che oramai sento come perdita. La perdita di una parte di me stesso. E pure fino a qualche tempo fa ho provato una gioia infinita nel vedere mia figlia giocare con i suoi figli e vedere come erano felici di stare insieme, vedevo in questo la mia stessa gioia.
Già immaginavo le lezioni di scacchi da dare ai bambini per poi vederli giocare tra di loro allo stesso nostro gioco, i possibili argomenti da tramandare e le tante storie scoperte, vissute o immaginate che avremmo con gioia e con prospettive diverse raccontato a quelle faccine meravigliate.
Riuscire a capire cosa sia cambiato! perchè si dividono così gli esseri che pure sono simili!
Possibile che l'intervento di altri sia stata la causa? Ma se così fosse come il suo essere non abbia le mie stesse reazioni e non cerchi ancora uno spazio d'azione in cui proiettare i suoi 16 pezzi allo scontro che ci ha fatto crescere con i miei 16 pezzi?
Perchè non riprendere quel gioco infinito che finirà nel momento in cui saremo di nuovo soli!  Definitivamente soli!

Ciao Amico... mi manchi!

domenica 16 gennaio 2011

La mia Sicilia

L'Abbazia di Santa Maria di Maniace 
Detta anche Ducea di Nelson, Castello di Nelson o Ducea di Maniace


 Sorge in un punto della Sicilia in cui il sangue ha raggiunto le viscere del Vulcano, per quando ne è stato sparso.
Giorgio Maniace fu inviato in queste terre dall'imperatore Michele IV nel 1038.
Con un esercito composto da bizantini, lombardi e normanni, Maniace affrontò qui le truppe musulmane. Lo scontro  fu ricordato poichè il vicino fiume allora chiamato Saracena - si colorò di rosso a causa del sangue versato.
Per ringraziare della strage fatta il generale fece costruire un piccolo cenobio e vi donò una icona che - narra una leggenda - sarebbe stata dipinta da  San Luca.

La regina Margherita vi fondò, nel 1173 un'abbazia benedettina dedicata a Santa Maria ed assegnò a questa un feudo di notevole estensione. La stessa regina vi trascorse gli ultimi anni della sua vita. Nel 1373 si parla di fortilicium del monastero, e nel 1422 compare il termine turris. Quindi è probabile che la definizione di castello venne adottata dopo questa data.
Il terremoto de 1693 arreco gravi danni a tutto il complesso.
Re Ferdinando di Borbone, il 3 settembre del 1799 la dono all'ammiraglio inglese Horatio Nelson  come ricompensa per avere aiutato a sopprimere la Rivoluzione Napoletana, ricordiamo che proprio sulla nave dell'ammiraglio fu giustiziato Francesco Caracciolo uno degli strateghi della Repubblica partenopea.
Da allora il complesso costituito da un'ampia tenuta ed un appartamento nobile confinante con la splendida chiesa, prenderà il nome di Ducea Nelson.
I vari moti  del IX secolo la toccarono sempre marginalmente.. tranne che per la rivolta del 1860 in cui i contadini credendo negli ideali garibaldini e in attesa della redistribuzione delle terra, che erano in mano a pochi notabili filo-borbonici, ma anche agli inglesi che avevano permesso lo sbarco, insorsero. Ma fu proprio Garibaldi  che inviò Nino Bixio per reprimere in maniera esemplare e sommaria la rivolta della popolazione, fu una vera strage che minò definitivamente la fiducia della popolazione nella giustizia.
Con il fascismo la ducea fu espropriata agli inglesi  e fu costruito un gruppo di case assegnate ai braccianti.
Il luogo fu chiamato "borgo Caracciolo" a ricordo del rivoluzionario napoletano i cui propositi erano stati vanificati proprio da Nelson.
Durante la Seconda guerra mondiale fu sede fu sede di comando militare tedesco.
Con lo sbarco anglo-americano e la fine del conflitto, tornerà agli eredi Nelson-Bridport: l'imponenente latifondo sarà largamente ridotto per i timori della più volte annunciata (ma blandamente realizzata) riforma agraria degli anni cinquanta. Attraverso acquisti forzati che gli inglesi, anche con tassi di usura, imposero ai loro braccianti, il territorio di proprietà ducale si ridusse drasticamente (si veda in proposito questo brano di Carlo Levi). Venne abbattuto inoltre borgo Caracciolo, ma i ruderi furono lasciati sul luogo quasi a sancire, simbolicamente, che le imprese dei rivoluzionari si concludono in maniera fallimentare. Venne realizzata una piscina proprio a ridosso del giardino, una area del parco con alberi secolari fu sventrata per realizzare un campo da tennis con fondo bitumato. Secondo alcune testimonianze i discendenti maschi di Nelson quando di passaggio per la ducea continuarono a praticare lo "ius primae noctis" con le giovani donne locali (questo spiegherebbe la presenza tra i maniacesi di molte persone bionde e con gli occhi azzurri). Fondamentalmente i maniacesi furono sfruttati solo come mera forza lavoro e lasciati nel degrado civile e culturale e nell'indigenza sia dagli inglesi. Sempre alla ricerca di denaro per sostenere un tenore di vita elevato, gli eredi dell'ammiraglio che vivevano tra l'Inghilterra, Roma e talvolta la Ducea, continuarono con progressive alienazioni, fino ad arrivare alla svendita di questo pezzo d'Inghilterra in Sicilia.



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mercoledì 22 dicembre 2010

a Truvatura




Nelle notti di eclisse di luna la possibilità di sciogliere le truvature sono quasi del 100 per 100.
Non erano queste le parole ma il senso si del discorso che mi fece Santipamma una volta in cui feci cenno all’eclisse che ci sarebbe stata quella notte.
Secondo lui c’erano due tipi di Truvature una legata al sole e una legata alla luna, e di conseguenza la possibilità di scioglierle erano maggiori durante l’eclisse di sole per le prime e di luna per le seconde.
Di Truvature c’è ne quasi una per ogni luogo nel mia terra, forse a causa della necessità che la popolazione sfruttata e verseggiata ha di sperare in un futuro migliore.
Nel mio paese si favoleggiava di una Truvatura che si deve trovare nella cripta della Chiesa sconsacrata di San Vito nella frazione dei nuzzari a pochi metri del cimitero; una botte piena di monete d’oro e di gioielli era la ricompensa, naturalmente il più grande esperto di botti che sia mai esistito sapete bene chi sia…
Venivano chiamati nuzzari gli abitanti di quella frazione del mio paese poiché vi era una forte presenza di allevatori di tacchini che in dialetto vengono chiamati nuzza. La piazzetta antistante alla chiesetta era coronata da ulivi selvatici e stranamente era ed è una delle piazze meno frequentate sia dagli adulti che da noi ragazzi, ragazzi d’allora naturalmente. Richiamandola alla mente non posso dire che sia una brutta piazza, malinconica forse..ma la presenza a pochi metri del cimitero la rendeva poco attraente anche per giocarci al pallone.
Santipamma mi spiegò come si dovesse sciogliere la truvatura:

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Entrare nella chiesa prima di mezzanotte o durante una eclisse di luna e qui non ci sono difficoltà basta forzare il vecchio portone.
Bisogna avere con se uno di nome Vito e di Vito in paese ne esistono abbastanza c’era Vitu minchiamotta che per un arancino era disposto a tutto.
Una vergine e questo era un bel problema, tutte quelle che conoscevo non erano più vergini, alcune per merito mio, ma tra le figlie di Maria un paio, data la loro somiglianza ai fiaschi tanto amati dal mio amico, promettevano ancora di poter arrivare all'oro.
Vito doveva aprire la botola e far strada sino al centro della cripta, disegnare un cerchio con un bastone di ferula: altro che Doris, già all’epoca si usavano questi mezzi per procurasi le ricchezze.
Tutti i presenti dovevano porsi al centro del cerchio e senza mostrare paura, ribrezzo o invocare i Santi aspettare che alla mezzanotte comparisse una Biddrina, che si sarebbe attorcigliata e leccato i presenti. Se nessuno avesse provato paura o ribrezzo questa si sarebbe trasformata in una chioccia d'oro e in 7 pulcini. Bisogna essere bravi a catturarli tutti e solo allora si sarebbe aperto un passaggio per dove si dovrebbe trovare la botte. Il varco deve essere attraversato per prima dalla vergine ma solo toccando tutti e tre la botte contemporaneamente la fattura verrà sciolta.

La storia si concludeva con la frase:
- Ma poi cu tutto 'st’oru chi'ni facemo?
-Sicuru ca saremu chiù felici?

mercoledì 27 ottobre 2010

Tempo di vendemmia


Sono i giorni che mi riportano in mente la vendemmia.
Mi reputo fortunato di avere ancora la memoria della vendemmia così come si faceva una volta; quella senza nessun strumento elettrico o a motore, solo uomini, donne, bambini, animali e tanta gioia.
Non era un lavoro era una festa, anche se avevi una grande vigna e dovevi pagare degli operai la vendemmia veniva vissuta con uno spirito  di estrema allegria.
Ci si alzava preso, prima che sorgesse il sole.
Per essere alle prime luci dell'alba tra i filari.
Non pensate alle vigne a pergolati, all'epoca le viti da noi erano  ancora coltivate basse, gli ultimi lavori fatti erano quelli della “rifunnuta”, una zappata che serviva a coprire bene le radici fatta a  luglio per evitare che il caldo torrido dell'estate asciugasse troppo  la pianta, e poi solo zolfo, irrorazioni con poltiglia bordolese, una  miscela di verderame e calce e tante preghiere che non ci fossero  precipitazioni intense con grandine. Scampati i pericoli della  peronospora e del tempo, si ci preparava alla vendemmia.
I più ricchi avevano il palmento di proprietà altri dovevano  affiatarlo e quindi far coincidere il giorno della raccolta con quello  della pigiatura. Stabilito il giorno, si invitavano i parenti, gli  amici e se la vigna era grande prenotare la manodopera.
I primi minuti di raccolta si svolgevano in silenzio, poi come se  uscisse dal profondo della terra un suono gutturale iniziava un canto  che da struggente diveniva sempre più allegro, erano canti popolari, i  più belli erano quelli in cui la strofa richiamava una sua risposta e  nel rispondere il mio amico Santipamma era insuperabile.
Lui era adibito al trasporto dell'uva sino al palmento con la sua  asina, ma tra un carico e l'altro si introduceva nei canti in maniera  magistrale ed imprevedibile; per lui la vendemmia era come una festa  di battesimo, cresima e di nozze messe insieme, se vedeva qualcuno che  tralasciava un grappolo era capace di insultarlo per ore, manco fosse  lui il padrone.
Era scontato che venisse sempre per la nostra vendemmia, non so se per  rispetto a mio nonno o perchè realmente mi reputava un suo amico o  perchè il vino della botte piccola era il più buono di tutta l'Etna.
Stava ben attento che il carico fosse ben bilanciato, io mi sentivo in  dovere di aiutare a trasportare i vari recipienti sino alle gerle ed  ero l'unico che oltre lui versavano i grappoli nelle gerle legate al  basto, cercavamo di fare l'operazione in sintonia non mettevamo mai un  grappolo in più del necessario, io poi avevo sempre una carruba da dare a ogni carico e l'asina strofinava sempre la testa sulla mia  spalla a mo di ringraziamento.
Quando arrivavamo al palmento, dopo la breve “trazzera” in pietra lavica  in cui avevo sempre il terrore che l'asina scivolasse, scaricavamo  all'unisono le due gerle nelle vasche; Santipamma aveva inventato un  sistema di sgancio delle gerle con supporti di elastico che fungevano  come i moderni cassoni ribaltabili poi prendevamo una vasca e fatta la  breve scala che portava alla finestra che dava alla pista del palmento  versavamo il tutto formando una montagnola di grappoli bianchi e neri  facendo volare un nugolo di vespe che attratte da quel ben di Dio  minacciavano dolorose punture, che stranamente avvenivano raramente; forse anche le veste e le api erano contagiate da quell'atmosfera di  festa o meglio erano stordite dall'alcol.
A metà giornata salivo in pista anch'io, a caricare ci pensava mio  fratello, diminuendo la necessità della raccolta e del trasporto  aumentava quella della pigiatura.
E li l'atmosfera era davvero inebriante. Era una vera e propria danza al dio Dionisio, si marciava in circo al passo strascicato con un  ritmo battuto dalla voce del capo pista assistita dal canto di antiche  canzoni.
Si spargevano dalla montagnola i grappoli, utilizzando delle zappe,  sulla pista sino a formare un tappeto di un palmo abbondante.

Il capo pista dava il via e con passo regolare si cercava di pestare il più possibile, quando gli schizzi arrivavano in faccia veniva dato il segnale per aprire la porticella che permetteva al mosto di prima pigiatura di arrivare al primo tino.
Quello era il mosto che mia nonna veniva a raccogliere con una "quartara" per poi fare il vin cotto, era il mosto più dolce, impossibile ad avere ora con i macchinari di pigiatura e con quel vin
cotto si facevano i "mustazzola".
Aiutandosi con una scopa si faceva scorrere il mosto dalla pista e con le pale e rastrelli si ammucchiava l'uva al centro.
Poi il capo pista ordinava: -U' Sceccu!
Questo era un tavolaccio rotondo che veniva posto sulla montagnola di uva pigiata e su questa si saliva e accompagnati da un canto ritmico si saltava, facendo attenzione a non scivolare pigiandosi ai rastrelli o pale che facevano d'appoggio.
Il capo pista spingeva il mosto che usciva con la scopa e poi ci ordinava di scendere quando il peso non sortiva più risultato.
Tolto “U' Sceccu” non una zappa si distribuiva l'uva a mo' di anello e si cominciava una marcia in cerchio a fila indiana con canto lento e struggente, canti classici, da carrettiere, a passo cadenzato.
Questa marcia formava un laghetto di mosto al centro dell'anello che il capo pista provvedeva a far defluire con una pala mentre distribuiva l'uva sotto i piedi dei pigiatori.
Quando il tutto prendeva un colore uniforme e di mosto ne colava poco, aiutandoci con le pale e i rastrelli, si versava questa pasta nel tino in cui era già raccolto il mosto e si ricominciava con altra uva appena colta.
Quando la vendemmia era quasi alla fine, di solito verso le 13,00 si faceva pausa per il Pranzo Pranzo composto da: salsiccia arrostita nella brace e/o sui "canali" (tegole) lavati con il vino, costolette di maiale, olive verdi condite con sottaceti (giardiniera), acciughe salate formaggio pecorino primo sale, tuma, caponata, parmigiana, gelatina di carne di maiale e vitello "u' suzu"; tutto accompagnato dal pane fresco fatto in casa nel forno a legna. Per frutta: i primi meloni gialli quelli che poi venivano mangiati a Natale, le pere coscia e le "pira 'mputiri" dell'Etna, mele cola profumatissime, gialle come il sole di inverno. E i dolci erano una gara tra le donne che partecipavano alla vendemmia: cannoli di ricotta, crostate, torte di ricotta, biscotti di mandorle e pistacchi. Io mi sedevo sul basto dell'asina di Santipamma, non prima di aver preso un fiasco di vino da mezzo litro per il mio amico e una manciata di biscotti per l'asina, che appena sentiva l'odore ragliava come un tenore dell'opera.
Santipamma versava il vino nel mio bicchiere con la giusta parsimonia, come a far intendere se ne vuoi altro ti alzi e o telo procuri o porti un altro fiasco, cosa che diventava impossibile poichè ero super controllato da tutti i familiari per evitare quello che avvenne una volta in cui Santipamma si ubriacò e l'asina non volle muoversi dal suo padrone costringendoci a portar l'ultima uva a spalle, memori di quel evento l'accordo era un fiasco e basta sino a fine vendemmia. Anche perchè quell'anno il mio amico per colpa dell'ubriacatura non scese lui nel tino a rompere e distribuire la pasta di raspi e bucce triturate, e guarda caso il vino venne pessimo pur avendo avuto una produzione favolosa. Questo era un compito un po' pericoloso poiché bisognava scendere dentro il tino pieno e le esalazioni della prima fermentazione potevano far perdere i sensi, per ogni evenienza si legava una corda attorno alla vita di chi era adibito a tal compito, nel caso di Santipamma era anche prevista per ordine di mia nonna anche la doccia con lavaggio completo, almeno prima dell'operazione e se poi voleva anche dopo. Lui giurava sempre che si era lavato la mattina stessa ma mia nonna era inflessibile. Usciva dalla sala torture con un bel costumino ascellare, lo si legava alla vita e poi come una sirena armata di zappa entrava nel mosto che la fermentazione aveva già cominciato a riscaldare, i più forti tenevano la cima della corda per ogni evenienza.
Santipamma si muoveva in quell'elemento come un pesce nel mare come un danzatore all'opera e quando finiva diceva sempre: -Putissi moriri 'nin'Tinu di vino!

martedì 18 maggio 2010

Ricordo di profumo di ginestra





I ricordi mi si accendono soprattutto a causa degli odori....
Oggi in vento caldo di poehn, per un strano gioco appena sceso dalla macchina mi investe con la puzza della discarica o del termo valorizzatore e per contrappunto mi accende un ricordo .. sottolineato dall'odore di ginestra...
Io non ho voluto festeggiare il compimento dei diciotto anni poiché un mese prima ci fu diagnosticata la malattia di mio padre che quando finalmente finì di soffrire era agosto... un agosto non particolarmente caldo per gli standard della mia terra ma uno di quegli agosti in cui le mattine di davano la voglia di vivere, di fare di.... e allora decisi che era il meglio se festeggiavo il raggiungimento dell'età matura... un festeggiamento privato, io e tutte le figure che vivono in me... il posto era quasi obbligato ... la mia "Muntagna"... un sentiero percorso con mio padre un paio di anni prima che partiva da sotto monte Tre Frati, non particolarmente in salita: la salita era già fatta per arrivare all'imbocco del sentiero che era nascosta da macchie di rovi.
Lasciata la macchia presi lo zaino con scorte di cibo per tre giorni e il mio regalo ...una bottiglia di grappa friulana presa con lui a Gradisca D'Isonzo.
Iniziai il cammino con passo lentissimo ...era una processione non una passeggiata, lo zaino era la "Vara" e la bottiglia il simulacro di quella cerimonia.
Tre ore di salita e poi la piccola radura con la grotta. Un cerchio perfetto, coronato dalle ginestre, l'aria era calda ma non afosa e il profumo dei fiori stagna in quel tempio naturale.
Presi quattro blocchi di lava e montati un'ara all'imbocco della grotta. La pietra più liscia accolse la bottiglia, sistemai il sacco a pelo, e poi mi dedicai alla raccolta della legna, la sera è meglio avere un fuocherello acceso all'imbocco della grotta che grazie a una gioco di correnti non permetteva al fumo di entrare; alle primo calar del sole accesi il mio fuoco che con la legna secca non faceva quasi nessun fumo.
Accesi la lampada a gas, presi la salsiccia e la misi a cuocere usando la tegola lasciata in un anfratto tra le pietre della cresta del fronte lavico secolare, opportunamente pulita con il vino della nostra vigna. Ben presto l'odore della salsiccia al ceppo e della ginestra si mescolava nella mia mente e nel mio animo, grazie anche alla vino.
Mangiai.
Poi finalmente piangendo cominciai a bere la grappa.

lunedì 10 maggio 2010

La fossa




Incontrai Santipamma alcuni giorni dopo il fatto... e anche se la storia mi fosse stata raccontata dai più grandi interpreti paesani, non potevo tralasciare di riascoltarla dall'attore principale.
Era seduto in una delle panchine della piazzetta antistante la chiesa di San Giuseppe, vicino alla fontanella che dava acqua fresca anche ad agosto, non fosse mai che il mio amico si trovasse li per godere del puro liquido, ma per riposarsi e per permettere alla sua amica, la scecca, di dissetarsi e allo scopo aveva riempito un bel secchio di acqua che arrivava direttamente dai monti Trigona.
Mi sedetti accanto in modo da poter carezzare l'animale e non perdere nessun espressione del viso del sommo filosofo.
-E chi cumminasti? Tuttu u paisi ni parra!
- A cuppa fù di Turi Pisciasaccu. U sapisti ca' misi fa muriu du fitusu di Cicciu Nasca?
Mancu u parrinu sapeva chi au ddiri pi l'animazza so. E di quannu u vurricarunu ci furunu tanti che dissuru di sentiri e viriri: vuci, lamenti e focu ca niscieunu 'nda so tomba.
Cicciu Nasca era un usuraio che aveva sulla coscienza ben due famiglie in cui in capofamiglia si era suicidato per colpa sua, al suo funerale furono pagate le persone che vennero da fuori paese per fare un po' di folla poichè solo la famiglia della sorella, a cui andava tutta l'eredità di questa anima nera sarebbe stata presente e non per affetto ma per convenienza.
- E chi c'entra Cicciu Nasca e Turi Pisciasaccu?
- Turi promittiu ducentumilaliri a cu' passava 'na notti sulu ndo capusantu vicinu a tomba di ndu fitusu.
- Iu ci dissi ca si mi dava dui buttighi di vinu prima ci stavu da sira sinu a matina, du pirucchiusu mi desi na buttigghia sulu, tu u sai ca sino a quannu c'è di viviri iu non dommu.
Ma na buttigghia finiu prestu e mi calau u sonno...
In parole latine.. avendo ricevuto una sola bottiglia e avendola finita velocemente si era stesi vicino alla tomba dell'usuraio e muovendosi nel sonno era finito dentro a una fossa che ra stata appena scavata in attesa del suo ospite.
L'asina si era diretta dietro a un grande monumento dove cresceva rigogliosa non so quale erba succulenta..
La mattina come suo solito la za' Mara Occhi'stotti si apprestava a rendere omaggio al marito defunto e passando vicino al nostro bello addormentato si prese quai un infarto a sentire il raglio dell'asina e un essere sporco di terra sorgere dal suolo che dalla sua prospettiva doveva sembrargli uscire dalla tomba di Cicciu Nasca.
Scappò urlando sino alla caserma dei vigili Urbani, facendo accorrere le forze dell'ordine e provocando l'ennesimo arresto per ubriachezza molesta al nostro eroe.

giovedì 15 aprile 2010

Il gatto morto


Quel pomeriggio avevo appuntamento con il mio amico Giovanni per la classica partita a scacchi e le quattro chiacchiere rituali.
Mia madre mi aveva chiesto se passavo da za' Filippa non ricordo più per cosa, che abitava pochi metri dopo il tugurio del mio carissimo amico Santipamma. Non pensavo di trovarlo in quel caldo primo pomeriggio di Giugno e vedendo invece l'asina imbardata e il suo padrone davanti al loro dormitorio mi portò ad accelerare il passo per non farmelo sfuggire.
Era stranamente sobrio ed eccezionalmente lustro e pulito, anche l'asina era strigliata e con delle bellissime vettuli di cuoio con borchie di bronzo dorate.
- Baciamu li mani! unni iemu innu accussi lustru? (dove siamo andando così lustro)
- Binidittu! Stamu iennu a fari n'insiviziu pa' Signura Mara, na cosa dulurusa e di rispunsabilità!
- E chi ci succiriu (e cosa è successo) a za' Mara?
- Ci mossi u iattu! C'era tantu affeziunata e vole ca u vurocu cu tutti l'unuri (che lo seppellisca con tutti gli onori), e pi stu siviziu mi runa centumilaliri, mi fici pristari i vettuli da don Pippinu manufitusa (don Peppino mano sporca).
- Mi spiaci per il gatto e per a za' Mara, ma sugnu cuntentu ca ti venunu centumilaliri, e non ti biviri tutti n'davota! (non berteli tutti insieme)
- A pi cu mi pighii ... i fazzu fruttari sti soddi, stavota non mi bivu, mi iocu o lottu accussi mi fazzu riccu! (per chi mi prendi? li farò fruttare non me li bevo, li gioco a lotto, così divento ricco!)
-E allura dammi i numiri macari a mia, accussi arricchisciu macari iu!
E carezzando le cara asina mi allontanai salutandolo con la mano.

Passarono due giorni e due vittorie, due patte e una sconfitta, quando rincontrai l'asina e il suo padrone.
Era seduto su una panchina in piazza, sotto l'unico albero che riusciva a dare ombra a lui e alla bestia.
Dopo i saluti rituali mi raccontò la sua ventura di becchino di gatti.
Andato a prendere la salma dalla za' Mara e postala avvolta in una federa dentro le vettole, aveva avuto l'ordine di seppellirla sotto l'albero di piretti (Citrus limonimedica) che si trovava nel "lotta"(lotto di terreno) lungo la via per Viscalori (frazione di Viagrande) di proprietà della za' Mara.
Sfortuna volle che lungo la strada, Santipamma, incontrasse proprio vicino alla putia (bottega che vende vino e cibo) un conoscente che gli offrisse un bicchiere di vino.
Dal bicchiere si passa alla bottiglia, dalla bottiglia alle bottiglie....
Per farla breve il nostro filosofo si ritrovò l'indomani all'alba sotto il monumento dei caduti con accanto l'asina che lo vegliava e... sorpresa senza vettuli.
Gli avevano rubato le bisacce con tutto il gatto morto.
Attimi ti sconforto, ma poi l'ingegno prevale.
Sale sull'asina e via verso Viagrande...

- E che centra Viagrande?- Chiesi.
- e Varanni avevu vistu vicinu a chiesa di Santu Mauru nu iattu precisu sputatu a chiddu da za'Mara.

-Arrubbasti u iattu?
- U pighiai, u lavai, fiteva chiu da testa da sciecca, (lo presi, lo lavai, puzzava più della testa dell'asina) ma non sulu ... tunnannu truvai l'appuntatu Saruzzu ca aveva acchiappatu n'fitusu di catanisi ca m'aveva rubbatu i vettuli; ma u iattu non c'era chiu, cu'sapi unni u jttau.
- E chi facisti?..
- Ii nda za' Mara e ci rissi, ca'spittai ca si faceva scuru pi vuricari a povira bestia, scavai na fossa e quanno i pi pigghiari u iattu mottu, u sinti cauru e ci sinti u cori vattiri (battere il cuore) e pi arianimallu prima ci fici a rispirazioni e poi puncennu na vina da sciecca (pungendo una vena dell'asina) ci desi u so sangu (gli detti il sangue) e ci musrai (e gli mostrai) u iattu vivu, chidda oramai è menza orva (mezza orba), pa cuntintizza mi desi ducentumilaliri. Ora ci iucamu o lottu e poi aspittamu ca mori u iattu (ce li giochiamo al lotto e poi aspetto che muoia di nuovo il gatto).

martedì 16 febbraio 2010

I Curiani


Oggi andando in ufficio odoravo l'aria di Torino, era ancora buio e il gelo aveva coperto i vetri delle macchine obbligando a dar mano di raschietto.
Ma torniamo all'aria una puzza di bruciato di non ben inedificabili sostanze, un miscuglio nauseabondo e meno male che ieri aveva anche nevicato.
Il mio cervello mi riportò ai profumi che sentivo in questo periodo quando ero ragazzo.
Gli odori brutti erano quelli dello stallatico che veniva sparso nei campi.
Mentre fantastici erano gli odori che le potature di ulivi e delle viti diffondevano nell'aria.
Ma anche l'odore della terra smossa che dalle mie parti avveniva ancora a forza di braccia con attrezzi che risalivano a epoche passate, zappe e "zappuni"; era questo lo strumento principe del bracciante a giornata.
Questi venivano chiamati da mio Nonno e da mio Padre "Curiani", non so bene da dove deriva questo termine, forse dal fatto che tanti latifondi nelle nostre zone erano in mano alla chiesa e quindi alle Curie, ma non ho trovato riscontri su questa ipotesi.
Il Curiano nella mia immaginazione era un fenotipo ben preciso, scarsa intelligenza, forza sproporzionata ma indolenza atavica.
Quasi un deriva parallela dell'evoluzione, la sua rozzezza era anche nel cibo di cui si nutriva, cipolle crude pane e vino, e a questo bisognava fare molta attenzione poiché non riusciva a trattenersi e se il datore di lavoro faceva l'errore di metterne a disposizione troppo, ti ritrovavi con la mano d'opera ubriaca e il lavoro non finito a fine giornata.
Mi ricordo quando uno di essi un po' brillo, mentre scalzo portava a compimento la sua mansione di preparare la vigna per l'estate con la così detta "rifunnuta", scambiò il suo pollicione che usciva dal monticello di terra, per la testa di una vipera e si tronco l'alluce con un colpo di zappuni. O quanto spinto da un bisogno corporale dopo aver mischiato uva e fichi d'india durante la vendemmia non riuscì ad appartarsi in tempo e lasciò una pista di un color marroncino chiaro lungo il filari di vite.
Era uso dai proprietari della vigna far mangiare i fichi d'india prima di iniziare la vendemmia, questo per evitare che poi i braccianti si servissero dell'uva ben più preziosa, infatti la combinazione dei due frutti dà un risultato, diciamo, dirompente.
Ma avvolte in queste famiglie venivano fuori dei fiori inattesi.
Uno di questi colpì così tanto le fantasie di un mio fraterno amico che fu veramente dura dissuaderlo dallo dichiararsi in casa del così detto giglio.
Ma questa è una storia che mi riprometto di raccontare un'altra volta.

mercoledì 13 gennaio 2010

Centuripe











Torno in Sicilia almeno una volta l'anno, ma per problemi familiari erano decenni che non mi muovevo da Catania.
Quest'anno ho voluto rivedere la parte per me più bella della mia terra, quella che va dalla piana di Catania a Enna.
In questa stagione l'isola presenta una gran varietà di verde e di colori accesi grazie alle piogge che pulendo l'aria permettono una visibilità eccezionale quando il sole è nelle prime ore del giorno o prima del crepuscolo.
Con la piccola utilitaria mi sono inerpicato sino ad uno dei paesi storici dell'isola, Centuripe.
Se qualcuno vuole sentire l'antichità della Trinacria deve vedere Centuripe ed Agira, altro borgo della provincia ennese.
La storia tra queste case si perde nella notte dei tempi, dalla preistoria ai sicani, poi i siculi, i greci, i romani ecc. ecc.
Tutti hanno lasciato qualche cosa e tanti ne hanno approfittato di questi lasciti, sia i tombaroli che i truffatori.
Ma la sorpresa è stata la scoperta di un piccolo museo di antichità, piccolo ma con pezzi eccezionali, peccato per il divieto di fotografarli ma spero che le poche immagini trovate su internet e il link potranno darvi un'idea.

mercoledì 23 dicembre 2009

La neve




Nella città di Catania sino ai primi decenni del 900 era uso il commercio della neve dell'Etna. A tale scopo era accumulata in grotte nella montagna dette neviere. Per il trasporto di usavano carretti coibentati usando uno strato di carbonella ricoperto di felci e sopra di esse su dei teli di canapa e altre felci poste a coprire il tutto.
Questo era un prospero commercio messo a bando per motivi igenici dopo la seconda guerra mondiale.
Ci sono testimonianze di tale tradizione, una delle quali del domenicano Giovanni Battista Labat, che nel suo libro Voyage en Espagne et en Italie, racconta di come nel convento domenicano di S. Girolamo a Messina, gli servirono "vino rifrigerato dalla neve". E Patrick Brydone, gentiluomo scozzese ,venuto a Catania nel maggio del 1780:"Gli abitanti di questo paese caldo,anche i contadini, dispongono di ghiaccio durante i calori estivi; e non c’è festa organizzata dalla nobiltà, in cui la neve non rappresenti una parte importante:una carestia di neve, dicono loro stessi, sarebbe più grave di una carestia di grano o di vino.Tra di loro regna l’opinione che senza le nevi del monte Etna, la loro isola non potrebbe essere abitata, tanto è divenuto necessario per essi questo articolo di lusso".

INTERVISTA

Si tratta di un'intervista realizzata da alcuni alunni che, insieme ad un insegnante, si sono recati a casa del signor Carbonaro, un uomo molto anziano che, nella sua vita, ha esercitato diversi mestieri, ma soprattutto quello del nevaiolo. Dalle sue parole traspare il modo di pensare e di vivere del contadino siciliano, che, con dignità e rassegnazione, ha affrontato fatica e povertà. Il testo dell'intervista, trattandosi di una persona poco istruita, è stata tradotto dal siciliano.

Alunno: - Come si chiama ?-

Intervistato: - Carbonaro Antonino-

A: - Quanti anni ha?-

I. : - 88 anni.-

A: - Quando ha finito di lavorare ?-

I. : - A 65 anni. -

A: - A quanti anni ha incominciato a lavorare ?

I. : - A 11 anni cominciai a lavorare nella tacca della neve, a coprire la neve. La tacca della neve era a Nicolosi (Tacca di S. Antonino) e nella zona di Pedara . -

A: - La tacca della neve veniva vurricata ( coperta)? -

I: - Si, di sopra ci buttavamo la terra. La neve si cominciava a tagliare in estate. -

A : - A che ora partiva per andare a lavorare ?-

I. : - Non vi era un orario ben definito: a volte partivo verso le due del mattino, altre verso le tre.-

A: - A che ora arrivava là sopra, in montagna ?-

I. : - Verso le otto perché dovevamo prendere le felci e altre foglie per avvolgere la neve -

A: - E poi la dovevate mettere dentro i sacchi ? -

I. : - Sì, la mettevamo dentro i sacchi , infatti la prendevamo e la avvolgevamo con le felci (filici).

A: - Perché non si sciogliesse ?-

I. : - Sì. -

A: - Quando salivavate là sopra in montagna le balle di neve erano già preparate ? -.

I: - No, le facevamo noi. -

A: - Voi stessi le facevate ? Dove andavate, dentro la tacca? -

I. : - Sì, dentro la tacca con il fugnone. -

A: - Il fugnone era quello strumento che serviva per tagliare? -

I. : - Sì. Poi la pulivamo, la mettevamo nel sacco e nello stesso sacco mettevamo una pampina (foglia), perché non si sciogliesse (la neve). Infine la portavamo a Nicolosi. -

A: - Ma, di solito, una balla di neve quanto pesava ?-

I. : - Circa 90 o 100 kg. -

A: - Quando la neve arrivava a Nicolosi costava di meno, perché pesava anche di meno ?-

I. : - Sì. -

A: - Dove era il deposito della neve? -

I: - In via Monte Grappa o in via Gibuti. -

A: - Che cosa mangiava quando era al lavoro ?-

I: - Mangiavo pane, cipolle, formaggio, olive. -

A: - Quante ore faceva di lavoro ?-

I: - Non c’era un orario definito, circa tredici o quattordici ore. -

A: - Quante persone c’erano che facevano questo lavoro ? -

I: - Di solito dieci persone. -

A: - Questi arrivavano a Nicolosi...-

I : - ...Scaricavano i carretti, le stringevano (le balle di neve) e le portavano a Catania. -

A: - A che ora partivano da Nicolosi ? -

I: - Alle due, due e mezza, o alle tre per arrivare a Catania e scaricare.-

A: - Ma dove le scaricavano? Nei bar? -

I: - Una parte vicino alla chiesa di S. Agata. -

Professore: - Ah! C’era un posto vicino alla chiesa di S. Agata, ma venivano anche portate in altri posti e anche nei bar ? -

I: - Sì, le portavano anche al Borgo e le vendevano. -

A: - Oltre alla neve lei caricava anche mazzi ?-

I: - Sì, la ginestra. -

A: - Ma dove l’andava a caricare? -

I.: - A Serra Pizzuta, o nel Montastro, o Sautu Cani, perché ce n'era molta. -.

A.: - Nel carretto quanti mazzi ci metteva ? -

I.: - A seconda quant’era grande il mazzo. -

Prof.: - Mille mazzi vero ?-

I.: - Sì. -

A.: - Un mazzo quanto pesava? -

I.: - Circa 2 kg. -

A: - Vi erano messi 28 mazzi che formavano un... -

Moglie dell'intervistato : - ...fascio, un mazzo era formato da sei fili di ginestra. -

A: - I muli sostituivano a volte i carretti? -

I.: - Sì, infatti con i muli scendevano i fasci a Nicolosi e poi altri li portavano a Catania. -

A: - Quanto prendeva di soldi ? -

I: - Circa 15 lire con il mulo. -

A: - Con il carretto invece ? -

I.: - Di più, circa 15 o 30 lire a giornata. -

Prof.: - Ma lei ha fatto anche il vendemmiatore ? -

I.: - Sì. -

A: - Quando vendemmiavate, quanti eravate ? -

I.: - C’erano dieci uomini, il massaro e i carrettieri. -

A: - Per ogni carretto quanti muli c’erano? -

I.: - La maggior parte delle volte un mulo. -

A.: - Lei quanti muli aveva ?-

I.: - Due muli.-

A: - Lei aveva un carretto o due carretti?-

I.: - Un carretto. -

A: - E quindi i due muli si alternavano? -

I. : - Uno trascinava il carretto e l’altro lo utilizzavo per i mazzi. -

A: - Quando cominciarono ad essere usati i camion e le motoapi , i carretti cominciarono a scomparire?-

I.: - Sì. -

A: - Sacrifici nella vita ne ha fatti tanti! -

I.: - Sì, molti. -

A: - Dopo una settimana lavorativa la domenica cosa facevate ? -

I.: - Niente, si lavorava come tutti i giorni. -

A: - Come le passava le feste ? -

I.: - Senza lavorare.-

giovedì 19 novembre 2009

Lontano, lontano nel tempo




In quel tempo esistevano ancora le rasule che permettevano di raggiungere i paesi limitrofi.
Se a volte, per l'incuria dei proprietari terrieri, che avevano l'obbligo di tenerle pulite da rovi ed erbacce, il percorrerle era difficoltoso, venivi ripagato dalla pace e dai profumi della campagna.
Era un pomeriggio inoltrato di Maggio e percorrendo la rasula che dalla frazione di Trimisteri portava al mio paese, alla sommità della salita dove la stradina si trasformava in una carettera con gli antichi blocchi di pietra lavica paralleli per facilitare lo scorrere delle ruote, vidi l'incedere dell'asina di Santipamma con il suo caro amico in groppa.
La cosa era abbastanza curiosa data l'ora e la calura che portava il nostro acerrimo nemico dell'acqua a soffrire la sete.
Accelerai il passo, in breve le mosche che anticipavano l'asina mi raggiunsero e ben presto la nuvola di quelle che la seguivano mi avvolse.
-SABBINIRICA!
Salutai portando il palmo aperto leggermente in alto.
L'asina si avvicino per ricevere carezza e zolletta di rito, mentre il padrone alzata la coppula metteva a fuoco e riconosciutomi, emise la frase di rito:
-Tuttu santu e binirittu!
Chiusi velocemente i convenevoli, zucchero compreso.
Chiesi dove andasse con quel caldo.
E Lui:
- nda putia a Pirara!
Stupito dalla risposta:
É finito u vinu nda Za' Mara? ni mancunu putii o paisi!
E Lui sconsolato:
-'U dutturi mu dissi!
E io sempre più stupito:
- E chi 'u dutturi cunsighia u vunu da Pirara?
Leggero cenno di diniego in sintonia con lo scrollo della testa dell'asina
- No! 'u dutturi mi dissi. " e mi raccumanu! 'U vinu!! Luntanu". Ma chiù luntanu da' Pirara a Sciecca nun'va!
E Sconsolato, incitando la povera bestia ricominciò il pellegrinaggio.

giovedì 5 novembre 2009

Li surci




Li surci
(G. Meli)

Un surciteddu di testa sbintata

avia pigghiatu la via di l`acitu (1)

e facìa `na vita scialacquata

cu l`amiciuna di lu so partitu.

Lu ziu circau tirarlu a bona strata,

ma zappau all`acqua pirchì era attrivítu (2)

e di chiù la saimi (3) avia liccata

di taverni e di zàgati (4) peritu.

Finalmenti Mucidda (5) fici luca (6),

iddu grida: Ziu!-Ziu! cu dogghia interna;

sò ziu pri lu rammaricu si suca;

poi dici: "Lu to casu mi costerna,

ma ora mi cerchi? chiaccu (7) chi t`affuca!

Scutta pi quannu isti a la taverna!"




(1) cominciare a guastarsi, specie per qualcuno che peggiora il suo modo di comportarsi
(2) attrivítu=coraggioso, audace ma qua è più da intendersi sfrontato
(3) saimi=sugna
(4) zàgati=bettole
(5) Mucidda=Gatta
(6) faci luca = tese un agguato
(7) chiaccu=forca

sabato 31 ottobre 2009

Catania...


Un'altra dimostrazione di Buon Governo da parte dell'amministrazione catanese...





lunedì 5 ottobre 2009

MESSINA










SANGU MIU


Nessun Lutto era tutto previsto, come da piano CASA approvato e da SANATORIA concessa con la maggioranza degli italiani e ricordatevi che in democrazia la maggioranza ha sempre ragione, e chi non è d'accordo non è democratico.

E ora mettiamoci un ponte sopra.

Sono orgoglioso di pagare le tasse e di non essere un utilizzatore finale.

VERGOGNA! VERGOGNA! VERGOGNA!

Firmato
un farabutto